Il Charley Thompson di Andrew Haigh è un giovane che spesso cambia il proprio nome (ed i propri anni) quando glielo si domanda. Non a caso la nuova opera del 45enne film-maker inglese in lingua originale non prende il nome del ragazzo di cui parla, ma del cavallo a cui Charley si affezionerà e con il quale si impegnerà in un viaggio verso quella che considera la sola speranza ancora possibile per un avvenire “normale”: ricongiungersi con l’unico famigliare in grado di dargli una casa.

Se 45 anni si basava su ciò che non si diceva e su quello che a malapena i personaggi suggerivano con sguardi, sospiri e minuscoli cenni, il nuovo Charley Thompson è un film di “confessioni”, nel quale sembra esserci una urgenza di comunicazione e non invece il bisogno di celare le proprie emozioni. E se in quel dramma che parlava di un amore ormai agli sgoccioli, Haigh analizzava la fuggevolezza delle proprie passioni, così fragili da piegarsi al passare degli anni e persino dei mesi (come in Weekend), adesso il viaggio di Charley ha la sua conclusione in un nuovo inizio ed Haigh pone il suo nubiloso sguardo su ciò che deve ancora accadere e non sui ricordi.

Dove il film riesce meglio è nella descrizione visiva di una America nella quale le persone vivono in coppie o in piccolissimi gruppi e sembrano volersi emarginare ed isolare dai loro simili, per loro predilezione (i marines che scelgono, dopo la guerra, di andare a vivere in una casa nel nulla) o per obbligo (i poveri, esclusi dal benessere americano e senza fissa dimora). Gli unici personaggi che davvero condividono eguale condizione ed insieme si dirigono verso una fine comune sono i cavalli. Se gli umani vagano nel nulla ed abbandonano i propri cari per fuggire verso i luoghi più periferici, gli animali da corsa di Del sono i soli a rimanere fissi nella loro scuderia, come se avessero in qualche modo compreso il loro “ruolo”. Ma se ad Haigh, paladino di un cinema dimesso e disadorno, non si chiedeva di rendere picaresco il suo road movie, il cammino di Charley non coinvolge come dovrebbe perché, al di là della speranza e della vergogna (per quello che è e per le azioni che compie) di cui sono carichi gli occhi del ragazzo, non c’è nulla da leggere se non quello che viene già espresso in maniera chiara.

Il giovane Thompson fugge perché non conosce modo diverso di vivere sin da quando era bambino, vagabondo pur avendo una famiglia, ed alla prima promessa di sicurezza (lo spauracchio dei “servizi sociali”) sembra allarmarsi perché incapace di immaginare un mondo diverso dal suo in perenne variazione. Se quasi sempre nei film americani è la assenza di "social care" a spingere i personaggi verso decisioni difficili, in Charley Thompson è il personaggio principale a respingere ogni presidio sociale. Il percorso per raggiungere sua “zia” (la sola persona che rimane inconoscibile a chi guarda) deve essere per forza di cose gravoso perché faccenda personale. E non c’è casa che Charley riconoscerebbe come sua se non quella che vuole raggiungere con le proprie gambe.

Haigh riprende Charlie Plummer quasi sempre in penombra o di spalle, lo nasconde e lo confonde fra le persone più grandi di lui che lo circondano. Proprio come il ragazzo, che cerca sempre di fingersi maggiorenne, la macchina da presa sembra voler camuffare la sua giovinezza per farlo sembrare meno piccolo di quello che è. Almeno fino all’immagine finale, in cui un primo piano spazza via ogni dubbio e rivela il viso bambinesco di Charley Thompson. Non ragazzino che si fa uomo (come avviene nei coming of age), ma un giovane che si finge uomo per inseguire il sogno di vivere un giorno come un quindicenne qualsiasi.