Per il suo nono film, Kelly Reichardt ha scelto di approfondire un contesto cinematograficamente stereotipato come quello della comune di creativi modernamente bohémien, un avamposto della controcultura in cui tutti sono sognatori, idealisti e romanticamente estrosi. Una delle autrici fondamentali del cinema indipendente americano mette così a dura prova la tenuta del suo sguardo sul territorio più difficile, quello che raramente concede vie di mezzo tra il compiacimento intellettualoide o - peggio - la ridicolizzazione dei protagonisti. Abbandonando coscientemente il modello narrativo predominante, basato sul dualismo successo-fallimento che spesso zavorra questo tipo di racconti, Showing Up trova ancora una volta una forma sincera di coinvolgimento e adesione alle modeste ambizioni dei propri personaggi (che sono appunto modesti e mai mediocri). Non c’e volontà di derisione o, all’opposto, il desiderio di trattare come geni schiacciati dal mercato questi giovani (e meno giovani) scultori che sognano di allestire una personale a loro dedicata o di esporre magari un giorno i loro lavori in una famosa galleria di New York.
Quello di Reichardt è un cinema troppo intelligente e rispettoso per gettare immediatamente i suoi personaggi nel tritacarne del cinismo e negare a priori la possibilità di un gesto gentile. Non c’è alcuna presa in giro della comunità hippie-dippy, ma un senso di solidarietà e vicinanza rispetto ad essa. La sceneggiatura di Jon Raymond e Reichardt è principalmente osservativa, aiutata dalla camera discretamente curiosa del direttore della fotografia Christopher Blauvelt. In questa piccola cittadina, tutti sembrano svolgere un’attività legata alla creatività, ci si complimenta costantemente a vicenda e si hanno sempre parole di apprezzamento per il lavoro altrui. Quello che sarebbe facile descrivere come un ambiente tossico e falso, di coltelli nascosti dietro la schiena e di sorrisi forzatamente esibiti, qui diventa una piccola oasi di cordialità e comune affiatamento, in cui anche le rivalità (che pure ci sono) possono essere sedate con poco e riassorbite velocemente. Compaiono tutte le figure tipiche di questo tipo di film - quella sulla cresta dell’onda e quella che non ha ancora ottenuto il giusto riconoscimento, quella che arriva dalla grande città per giudicare e quella che arriva dalla provincia e cerca di accreditarsi - senza che però la narrazione diventi archetipica o parodistica e senza che nessuno di questi personaggi cerchi forzatamente di suscitare in chi guarda un sentimento di simpatia o repulsione.
Quella di Showing Up è una collettività isolata ma non autoreferenziale, coinvolta fino a smarrirsi nelle proprie elucubrazioni e nelle proprie idee, ma non per questo esente dagli obblighi degli impegni quotidiani (comprare i bocconcini per il gatto) o immune dai fastidiosi imprevisti (lo scaldabagno rotto). Il processo creativo è descritto minuziosamente nella sua routine spesso pedante, così da renderlo immediatamente riconoscibile allo spettatore come qualcosa di simile nei meccanismi ad una occupazione “tradizionale” e non ad un passatempo per chi ha scelto uno stile di vita utopistico. Il titolo si riferisce ovviamente all’esibizione alla quale sta lavorando la protagonista, ma “to show up”, cioè presentarsi, è anche semplicemente il recarsi al lavoro, ad un appuntamento, alle piccole occasioni di convivialità che costano ad alcuni uno sforzo sovrumano. È per questo che Showing Up si pone come opera programmaticamente oziosa, che si interrompe continuamente, in cui è la stessa protagonista (Michelle Williams) a trovare innumerevoli scuse per ritardare, procrastinare, concedersi delle pause (anch’esse, forse, funzionali al risultato finale). Uno di questi pretesti diventa un piccione ferito, che la sua vicina di casa salva, ma che sarà lei a dover curare e accudire per quasi tutto il tempo (prima controvoglia, poi sempre più volentieri). La narrazione culmina, tra una digressione e l’altra, con il vernissage della mostra di Lizzy: un evento su cui aleggia fino alla fine la possibilità di tensioni o il rischio di inconvenienti imbarazzanti, ma che invece si risolverà anche in questo caso con un temporaneo allontanamento dal luogo dell’azione.
C’è però un ulteriore sottotesto di Showing Up che riguarda invece l’appropriazione di uno spazio ormai vuoto, quello dell’Oregon College chiuso nel 2019 dopo oltre un secolo dalla sua fondazione, avvenuta per volontà di Julia Hoffman: anche lei pittrice, scultrice e abile manipolatrice di metalli e tessuti. La chiusura è stata causata dal progressivo calo delle iscrizioni, il cui numero era sceso al punto da non poter rendere più economicamente sostenibile il prosieguo delle attività. Kelly Reichardt, lei stessa insegnante presso un’università americana, cerca così di rimarginare una ferita nel tessuto sociale, di restituire ad un luogo la propria funzione originaria di educazione e accompagnamento alla crescita. Una messa in scena di sublime minimalismo e apparente trascuratezza lascia suggerire che quello dell’Oregon College sia uno spazio “occupato”, che è stato provvisoriamente conquistato ma che potrebbe tornare da un momento all’altro alla sua precedente desolazione. Le stanze di questa meravigliosa e lussureggiante enclave boscosa non sembrano essere predisposte e attrezzate per l’insegnamento regolare e sistematico, per una didattica abituale ed istituzionalizzata. Nonostante nel film non ci sia nulla che lasci intendere che quella non sia una scuola vera e propria, lo stesso la sensazione che emerge osservandone gli ambienti è quella di irrimediabile precarietà, di una quotidianità che si regge su di un equilibrio fragilissimo. In questa realtà alternativa, il futuro di quel campus non è già segnato, ma lo stesso si percepisce tutta la fatica che ci vuole affinché il suo destino non si compia.
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