Triangle of Sadness di Ruben Östlund è il film-dossier antidiluviano degli anni Settanta (Costa-Gavras non è poi così lontano) nel suo residuo postmoderno più nichilista, ma anche più comico, in cui si combinano abilmente disgusto e ilarità. Se The Square era emotivamente più plurale, saldamente socialdemocratico, questo suo successore teorico si radicalizza fino al punto di diventare una immensa sandbox della misantropia, spazio di gioco (al massacro) in cui si muovono personaggi che, al di là della loro connotazione sociale, fisica, sessuale, provengono tutti da un’unica costola, che è quella dell’individualismo cieco e spregevole. Nella narrazione episodica è condensato l’intero percorso del cinema di Östlund, il progressivo ampliamento del suo raggio d’azione nel corso del tempo: il film comincia con una coppia (Forza Maggiore), si sposta su di una nave da crociera affollata da persone afferenti ad un unico gruppo sociale autoreferenziale e chiuso (The Square), in questo caso quello dell’1% del mondo, e termina su di un’isola in cui la narrazione si fa immediatamente apologo, esperimento con cavie umane, immaginando cosa potrebbe succedere al mondo se si togliesse il denaro dall’equazione che regola le dinamiche sociali.

Se la performance di Terry Notary travestito da scimmia già ricordava l’esibizione animalesca in televisione di Franco Franchi davanti ad un imbarazzato Pippo Baudo, adesso l’aprirsi del cinema di Östlund alla dimensione allegorica dell’isola ricorda l’ossessione di Marco Ferreri per gli epiloghi in riva al mare, per quelle spiagge che erano braccia tese verso destini nefasti (L’harem, 1967) o carichi di speranza (Chiedo asilo, 1980), luoghi di riflessione in cui contemplare il proprio dolore (Storie di ordinaria follia, 1981) o sognare di poter rimediare ad esso (Storia di Piera, 1983). Come in Ferreri, anche in Triangle of Sadness la relazione fallimentare tra sessi si rovescia: il maschio è soccombente e chi era inizialmente dominato prende in mano le redini del gioco (La Cagna, 1972). Ma, a differenza che in quei film, lo sguardo del demiurgo svedese, sempre in cima alle gerarchie che organizza, più in alto di qualsiasi personaggio in scena, non è mai verso l’esterno. Anche quando è ormai naufragato, il suo cinema non si rivolge a ciò che sta fuori, al futuro che può esserci al di là del mare, ma rimane inevitabilmente piantato sul proprio asse, costringe alla scalata, all’arrampicata (sociale e fisica). La possibilità di salvezza è sempre sopra di sé e mai davanti a sé.

Lo stratagemma molto pigro è quello di tratteggiare personaggi appositamente odiosi (il “ricco maiale”, l’anziana coppia di fabbricanti di armi ecc.) solo per poi farli stare malissimo, facendoli affogare nel proprio vomito e goderne assieme al pubblico. Questo fine ultimo, che poteva essere ottenuto con pochissimo sforzo, visto che tutto il contesto è stato minuziosamente creato per arrivare lì, viene però sorprendentemente raggiunto attraverso meccanismi comici raffinati e ben congegnati. Se dal punto di vista strettamente umoristico (o meglio, della tecnica umoristica) Triangle of Sadness può essere considerato il miglior film di Östlund, sarebbe comunque un errore confondere i piani della gag e del suo contenuto. La buona esecuzione, che fa scattare la risata come un riflesso, è cosa diversa dal giudizio sui temi, che viene immediatamente dopo la risata. La sofisticazione della gag non salva necessariamente il film dal suo “humour de potache” e dalla progressiva deriva ideologica (che sia in crisi l’idea di socialdemocrazia in Svezia dopo la gestione della pandemia?).

Di tanto in tanto, emergono i temi cari ai primi lavori di Östlund, i paradossi e i capovolgimenti di senso, come ad esempio nel momento in cui il giovane modello chiede alla sua fidanzata cosa fare quando una persona più potente ti invita nella propria camera da letto. Ma sono piccoli lampi, spesso senza conseguenze dirette sul racconto, in una narrazione estenuante, che sceglie di prolungare le sequenze oltre il limite in cui cessano di essere funzionali, efficaci e, in ultima istanza, ridicole. La terra sotto i piedi dei naufraghi non esplode come ne Il seme dell’uomo, decretando la fine definitiva della loro umiliazione. Non ci sono apocalissi, grandi o piccole (e si torna a Costa-Gavras) che azzerano il sistema malato: solo la reiterazione infinita delle stesse meccaniche di prepotenza, in cui le possibilità di cambiamento sono limitate ai soggetti che la perpetrano.