Il nuovo film di Hirokazu Kore’eda, il primo ad essere ambientato in Corea, sembra uno stress test del suo stesso cinema, un esperimento per capire fino a che punto lo spettatore è in grado di simpatizzare per personaggi che si muovono completamente al di fuori della legge, che compiono le scelte più deprecabili anche se mossi da sentimenti cristallini. È lo stesso modello di Shoplifters, in cui una famiglia (che tale effettivamente non era) decideva di rapire una bambina per “accudirla” all’insaputa dei suoi veri genitori e di avviarla al loro modo di vivere, fatto di espedienti, truffe e rapine. In Broker, però, il contesto non è più quello della piccola criminalità sporadica, contingente, ma quello di una illegalità sistemica e organizzata. I due protagonisti gestiscono infatti un’attività clandestina ben avviata di contrabbando di bambini, per i quali cercano i genitori giusti, nonché i migliori offerenti, in tutto il Paese. Cominciano così un viaggio per trovare una coppia disposta a prendersi cura del piccolo Woo-sun (e a pagare per averlo!) assieme alla madre biologica del neonato, prostituta con le mani sporche di sangue. Se prima lo spettatore era chiamato a empatizzare (in alcuni casi a tifare) per piccoli furfanti di strada, adesso Kore’eda alza l’asticella, chiedendo a chi guarda di solidarizzare con trafficanti di bambini e assassini, fino a immaginare che questa ennesima famiglia “sbagliata” e utopica, composta da gente che si è trovata insieme per le ragioni meno nobili, condannabili secondo i criteri morali abituali, possa comunque diventare un modello per tutte le altre.

Come spesso avviene nel cinema di Kore’eda, la manipolazione del ritmo cinematografico - la sua accelerazione o la sua estrema dilatazione - serve per indicare la relazione che i personaggi hanno con il tempo della loro vita, la loro personale percezione della durata degli eventi che stanno vivendo. In questo caso Broker è meno sfuggente, ad esempio, di Ritratto di famiglia con tempesta, in cui ogni scena sembrava durare meno del dovuto, riflettendo il desiderio inappagato del padre del film, che sperava sempre di avere più tempo a disposizione con suo figlio rispetto a quello che gli veniva effettivamente concesso. Kore’eda sembra qui invece voler accordare ai propri personaggi - e soprattutto alla madre del bambino - il tempo necessario per riflettere sulle decisioni da assumere, quello sufficiente a prendere coscienza di ciò che è nelle proprie possibilità e ciò che invece è meglio non fare. Man mano che il film andrà avanti, sarà ovviamente sempre meno salda la volontà di vendere il bambino. Ciò nonostante, i personaggi si renderanno conto, a quel punto della loro avventura, di non poter tornare indietro come se nulla fosse accaduto. È in quel momento che in un film chiaramente idealista, che racconta il mondo meno per quello che è e più per come vorrebbe che fosse, la realtà emergerà come il medio proporzionale tra l’inevitabile e l’ottimale.

Broker trova la grazia, il dramma, l’umorismo, in una famiglia allargata come non se n’erano mai viste prima, che si sottrae alla genetica e in cui troverà posto persino la polizia che voleva inizialmente dividerla. Ancora una volta Kore’eda, attraverso un linguaggio cinematografico sofisticato, riesce a convincere lo spettatore che al di là della biologia e delle norme c’è di più e di meglio. La forza del suo cinema sta nella scelta di non costringere mai lo spettatore ad aderire alle azioni dei personaggi che osserva, ma di permettergli di arrivare gradualmente e naturalmente a comprenderne il punto di vista. Non mette in discussione la legge, ma racconta quanto sia difficile giudicare qualcosa che non si conosce fino in fondo, come sia troppo facile (e ingiusto) condannare qualcuno senza aver ascoltato le motivazioni che lo hanno spinto ad agire in un determinato modo. Mette in scena vicende immediatamente stigmatizzabili se analizzate superficialmente, ma con una benevolenza e una complicità tali da far dubitare chi guarda delle proprie sentenze preventive. È un trucco cinematografico che il cineasta giapponese consiglia di applicare anche nella vita reale (come emergeva esplicitamente nell’incursione europea de La Vérité). Ed è per questo che gli stessi personaggi del film, anche quelli che avrebbero come unico compito quello di far rispettare le leggi dello Stato, non si limitano alle evidenze probatorie, a mettere in fila i fatti, ma si lasciano coinvolgere emotivamente. E le emozioni, secondo Kore’eda, non sono quasi mai impulsi irrazionali che sovrastano la logica, bensì fenomeni che stimolano una forma di valutazione delle cose che ha il vantaggio di essere profondamente radicata nel corpo. Broker apre alla possibilità di integrare le valutazioni emotive con quelle cartesiane, in modo che si potenzino le une con le altre, e suggerisce che spesso ciò che proviamo dentro di noi è più razionale delle leggi che regolano ciò che sta fuori.