Da un libro-inchiesta di una giornalista (Jessica Bruder) è stato tratto Nomadland, il film di Chloé Zhao che ha trionfato agli Oscar 2021. E da un libro-inchiesta di una giornalista, quello della francese Florence Aubenas (Libération, Le Nouvel Observateur) è tratto il film di Emmanuel Carrère che inaugura la Quinzaine des Réalisateurs: Ouistreham. Bruder ha raccontato la realtà dei nomadi americani trattati come “lavoratori plug-and-play”, la massima forma di comodità per datori di lavoro in cerca di personale stagionale a basso costo. Aubenas si è fatta personalmente assumere come donna delle pulizie sul traghetto che attraversava la Manica, ottenendo così una posizione “privilegiata” per raccontare il lavoro precario di centinaia di lavoratrici pagate 7.49 euro l’ora, costrette a prestazioni sfiancanti in tempi strettissimi: quattro minuti per rimettere a nuovo una cabina, per un totale di duecentotrenta cabine a turno.

Entrambi i film, Nomadland e Ouistreham, raccontano (in maniera totalmente differente) la dislocazione e la privazione dei diritti fondamentali come conseguenze collaterali dalla gig economy. Entrambi i film sono nati dalla volontà della loro attrice protagonista - Frances McDormand nel primo caso, Juliette Binoche nel secondo - ed entrambi i film utilizzano prevalentemente attori e attrici non professionisti (cioè i soggetti rispettivamente documentati nei due lavori di inchiesta che ispirano i due lungometraggi).

La sceneggiatura di Carrère (a quattro mani con l’ex moglie Hélène Devynk) indugia su ciò che il libro (giornalisticamente rigoroso e poco interessato ai risvolti emotivi delle storie raccontate) trattava solo superficialmente: l’amicizia profonda che la scrittrice in incognito stringe con Christèle, madre single di tre figli, che la crede sua pari, non sapendo che l’amica, a differenza sua, non è condannata a quel lavoro, ma può decidere di andarsene quando vuole per tornare alla sua quotidianità di intellettuale borghese. In questa piccola trovata c’è la grande differenza che rende il film di Carrère eticamente più accettabile e narrativamente più credibile di quello di Zhao: non cerca di nascondere l’alterità della protagonista rispetto al contesto che la circonda.

Se Frances McDormand poteva accettare richieste degradanti proprio per via del suo status di celebre attrice immediatamente riconoscibile, il resto del cast non avrebbe potuto replicare determinate azioni davanti alla macchina da presa senza provare uno spiacevole senso di umiliazione. La sceneggiatura di Ouistreham, invece, non chiede a Juliette Binoche cose diverse da quelle che vengono chieste alle restanti donne del film. La totale estraneità dell’attrice rispetto al mondo che viene raccontato non è annullata, agli occhi dello spettatore, solo dalla sua incredibile capacità mimetica (di cui anche la McDormand aveva dato prova), ma dalla possibilità, concessa dalla regia a tutte le attrici, di poter essere davvero alla pari rispetto all’ingombrante comprimaria a cui viene chiesto di fingere gesti e movimenti che loro invece sono abituate a compiere ogni giorno.

In questo genere di film c’è una menzogna di fondo che Carrère decide di affrontare senza ipocrisia. Non può non esserci senso di colpa quando, sia pure per nobili scopi, ci si finge “uguale tra gli uguali”. Si possono subire gli stessi soprusi e si può provare la stessa sensazione di impotenza, ma la reversibilità della propria situazione è un lusso che non è concesso ad altri. Lo sfruttamento selvaggio nelle imprese delle pulizie, che negli Usa reclutano forza lavoro tra gli immigrati, fu raccontato, con piglio militante, anche in uno dei film ‘americani’ di Ken Loach, Bread and Roses, del 2000. Il film di Carrère, però, prima della denuncia sociale e politica, sembra essere interessato soprattutto all’amicizia diseguale che lega Binoche alle sue colleghe improvvisate. Raccontando questo, finisce per parlare di tutt’altro: dell’etica del lavoro del narratore e del rispetto dovuto alle persone coinvolte nei propri progetti, cinematografici, giornalistici o letterari che siano.