Il nuovo film di Spike Lee, BlacKkKlansman, si svolge come un poliziesco anni ’70 e vorrebbe narrare l’incredibile vicenda di un afroamericano che riesce ad arrivare fino in cima al Ku Klux Klan (prima solo parlando con i capi dell’organizzazione al telefono e poi usando un suo collega di polizia bianco per le riunioni dal vivo) capovolgendo l’anima dura e repubblicana che in quegli anni animava invece quel genere di cinema. Quello di Lee è un vero e proprio saggio sulla forza delle immagini, quelle che vediamo al cinema o quelle sui giornali, sulla loro valenza pedagogica e sui rischi nocivi della loro diffusione.

Se il Ku Klux Klan possiede una propria simbologia inconfondibile sulla quale si basa la propria propaganda, anche la minoranza nera usa le immagini come prova di violenze che possono essere rese pubbliche solo grazie alla loro circolazione. Ma BlacKkKlansman è anche un film sulla persuasione delle parole, che inscena una perenne sfida fra idee diverse e spiega in che modo i propri valori possano essere condivisi con la massa usando la comunicazione orale per condurre nuove persone alla propria causa. Non è diverso solo il messaggio che quei discorsi veicolano (gli afroamericani sono per l’inclusione e l’emancipazione, i bianchi del Klan sono mossi da odio e razzismo), ma anche il modo in cui le persone recepiscono quelle parole e reagiscono a quei discorsi. Se i neri rispondono con la loro voce e con il loro corpo a ciò che gli si dice, palesando il loro dissenso o il loro favore, quelli della “Organizzazione” in silenzio ricevono il verbo del loro leader come fossero dei fedeli a messa.

Non è quindi un caso se in un poliziesco in cui le parole sono più pericolose delle armi, il personaggio principale, per la sua prima missione “undercover”, debba imbucarsi ad un raduno di afroamericani per capire il reale rischio per l’ordine pubblico di quelle idee espresse da sopra al palco, con parole così efficaci da essere in grado di infiammare la sala e convincerla della esigenza di una rivoluzione che passa anche per la violenza. E saranno proprio le parole e gli slogan a collegare un film così immerso negli anni in cui si svolge, dalla messa in scena al modo di narrare la propria vicenda, all’America di oggi, quella di Trump, quella che viene “prima” di ogni cosa e che bisogna fare “di nuovo grande”.

Come Flip, un ebreo che non ha a cuore le condizioni del suo popolo ma che, svolgendo il proprio lavoro, svilupperà un senso di rabbia che prima non possedeva, i personaggi del film saranno quindi in grado di risvegliare dal profondo della loro coscienza un desiderio di ribellione che credevano non avere più. Così se BlacKkKlansman è un film in cui le persone cambiano idea senza la paura di doverlo poi confessare, persino Spike Lee, che ha sempre espresso le proprie convinzioni in maniera pubblica e mai dubbiosa, sembra in alcune scene voler rivelare una nuova e mutata sensibilità, diversa da quella che invece lo animava da giovane negli anni incendiari dei suoi esordi.

Lee inserisce nella sua narrazione così rigida nel seguire le regole di un genere ben preciso anche alcune digressioni (specifiche di un modo più libero ed europeo di fare cinema che lui segue dagli inizi) sulla descrizione dei neri nel cinema americano, sia in quello “bianco” per eccellenza, sia in quello ad uso e consumo delle minoranze. Lee parla di quei film dozzinali a cui è da sempre avverso non solo lasciando che siano i personaggi a dialogare fra di loro esprimendo posizioni diverse, ma anche usando il mezzo filmico a sua disposizione per dare prova di quella che è la sola dimensione davvero efficace per inquadrare al cinema il problema della convivenza (fra la minoranza e la maggioranza, ma non solo) e del razzismo in ogni sua forma subdola o palese.