Come in ogni film di Asghar Farhadi, anche in Todos lo saben sembra che gli snodi cruciali della narrazione, quelli imprescindibili per la sua comprensione, non si risolvano nel film, ma fuori da esso, ben prima che la specifica vicenda di cui si parla abbia inizio. Così la scomparsa della giovane Irene (e la successiva indagine) è solo una scusa per rivelare pian piano ciò che noi ormai non possiamo più vedere (ovvero cose successe prima di ciò che il film ci narra) ma che dobbiamo comunque conoscere per capire fino in fondo ogni cosa.

Se il nuovo lavoro di Farhadi comincia come un melodramma, la regia è invece quella classica del thriller, a precedere quel passaggio di genere che avverrà solo dopo. La macchina da presa indugia sugli sguardi dei personaggi secondari (passano sullo schermo per qualche secondo ma sembrano avere una rilevanza maggiore di quella reale solo per il modo in cui vengono ripresi) ed inquadra da vicino anche le più piccole cose che compaiono in scena come a suggerire un ruolo di esse nella vicenda che invece non c’è. Farhadi usa i meccanismi del noir con eleganza e sapienza (ogni rilevazione avviene quando deve avvenire, con precisione chirurgica) ma solo per mascherare l’anima da melò che invece muove la sua opera.

Con Todos lo saben, Farhadi sceglie una narrazione che è simile a quella delle soap opera, in cui vi è solo un possibile livello di analisi, per cui si seguono gli enigmi e le complicazioni relazionali fra i personaggi con la consapevolezza di non dover comprendere nulla al di là di quello che emerge in superficie. È una operazione rischiosa che mira a conservare la forza (riuscendoci poco) di un cinema che è unico e complesso, come lo è da sempre quello di Farhadi, ma senza approfondire in maniera eccessiva una narrazione che per ragioni commerciali deve essere rapida e fruibile senza problemi. Farhadi quindi ammansisce i divi del suo film per ricondurli alla sua personale idea di cinema (alla quale devono ubbidire) ma finisce anche per disinnescarli, non usando a pieno la loro bravura e la loro esperienza (Ricardo Darín in un ruolo così piccolo e convenzionale è davvero uno spreco) per dare forza ai propri personaggi.

Quello di Farhadi è un film di transizioni (per mano di Hayedeh Safiyar, che con il suo lavoro scandisce il passare dei giorni e conferisce al film una cadenza irregolare, che esaspera sequenze che invece dovrebbero essere brevi e rimuove periodi anche lunghi con ellissi quasi invisibili) e di transazioni (economiche, come quella che i criminali chiedono alla famiglia per rivedere la ragazza sana e salva, ma anche quella che c’è alla base della relazione fra Laura e Paco).

La Separazione che dà il via al film non è allegorica come quella dell’omonimo capolavoro di Farhadi, ma reale, che non nasconde un senso diverso e più ampio. Todos lo saben è quindi un’opera resa viva da sprazzi (pur brevi) di grande cinema e dalla grazia con cui si svolgono alcuni dei passaggi principali della narrazione (ci sarà una dichiarazione cruciale di Bardem a sua moglie che avverrà con una frase appena udibile, fuori campo). Farhadi usa le immagini per svelare prima alcune delle rivelazioni che seguiranno dopo (la relazione fra Irene ed un giovane biker del paese ricorda quella fra Silvia e Raul in Jamón Jamón e ci suggerisce qualcosa che emergerà solo più in là) e nega l’azione, che noi non vediamo mai ma di cui apprendiamo le conseguenze dai dialoghi e dalle parole.

Nel cinema di Farhadi, la maniera nella quale i personaggi si guardano a vicenda è in grado di spiegare ogni cosa e la percezione che loro hanno di sé dipende sempre dalla percezione che di loro hanno le persone che li circondano. È un cinema in cui non si osserva quello che succede, ma si scopre quello che è già successo.