Il nuovo film di Gareth Edwards sfida la sempre più asfissiante tendenza di “brandizzazione” del cinema contemporaneo che si fa franchise, proponendo una storia originale, autoconclusiva e, con dovute limitazioni, analogica (o, almeno, libera il più possibile da green screen). Nella Hollywood del 2023, dove gli studios sono ossessionati dall’espandere, collegare e sfruttare senza sosta le loro proprietà intellettuali come fossero pozzi petroliferi (Disney come Mattel) nella speranza di “vincere” il botteghino, puntando alla massimizzazione dei ricavi da merchandising e, infine, rispettando gli obblighi di mercato imposti dai consigli di amministrazione, The Creator tenta una nuova via, a metà tra il guerrilla filmmaking e la rigida produzione che generalmente irreggimenta i film ad alto budget. Sfruttando le risicate risorse concesse inizialmente dalla New Regency per il location scouting del film in Asia, Edwards ha montato un obiettivo degli anni ’70 su di una videocamera digitale e, senza avvisare la società di produzione, ha iniziato “clandestinamente” a girare le scene del suo film ambientate in Vietnam, Thailandia, Cambogia. Dopodiché, ha inviato un montato preliminare ai suoi amici di Industrial Light & Magic (relazioni che ha consolidato nel suo periodo “blockbuster”, da Rogue One a Godzilla) e ha commissionato loro un lavoro sulle immagini e sugli effetti speciali, riuscendo a convincere chi doveva finanziare il progetto che sarebbe stato possibile risparmiare - almeno rispetto ad altre produzioni simili nelle ambizioni - e ottenere comunque un risultato convincente. Insomma, un caso di scuola su come presentare con successo l’idea per un film accompagnata da un creativo, ma credibile, piano finanziario.

Così The Creator, dimostrandosi all’altezza del proprio altisonante titolo, è un film di fantascienza realizzato in ambienti prevalentemente reali e in cui gli effetti speciali sono piantati nell’immagine piuttosto che il contrario. Un’opera originale, pur irridendo fin dall’inizio il concetto stesso di novità, specialmente in un genere, quello fantascientifico, in cui si è già fatto di tutto. La sinossi, di per sé, non è infatti sorprendente: in un futuro relativamente prossimo, l’IA si è sviluppata per assumere il controllo insidioso delle nostre vite. I robot - alcuni umanoidi, altri no - hanno invaso la società, occupando posizioni di potere o di polizia. Lo scenario apocalittico è ovviamente già servito (una bomba nucleare, armata da un’IA, ha distrutto Los Angeles), ma Edwards sceglie di collocare il suo film in un secondo momento, quindici anni dopo quegli eventi, con una non banale sottigliezza geopolitica: dopo averle bandite dalla sua società, l’Occidente (che coincide con l’America, in una semplificazione che è anche un atto di accusa) è andato in guerra contro le intelligenze artificiali, che si presentano allo spettatore come una enclave protetta nel sud-est asiatico, dove convivono pacificamente con la popolazione umana (il riferimento è il Vietnam, ma anche le guerre più recenti contro il terrorismo). The Creator sembra così il seguito di un film che non abbiamo mai visto, riassunto con una operazione di world building esaustiva senza essere pedante. Tutto è costruito attorno ad una metafora politica tanto potente quanto semplice, come accadeva ad esempio in District 9, che mette il paese militarmente più equipaggiato al mondo contro un gruppo meno organizzato e meno potente (un po’ come accadeva in Rogue One). Edwards racconta così l’incredibile violenza sul campo di battaglia degli Stati Uniti, mettendo in scena un mondo dove ogni azione programmata dagli americani finisce inevitabilmente in un bagno di sangue e di disperazione. Nessuno dei loro “piani” va come dovrebbe andare, terminando invece con un esito costantemente disastroso (non solo per la fazione nemica, anzi).

Già nei primi secondi di film, The Creator pone in primo piano lo slogan “More Human Than Humans”, come si diceva a suo tempo dei replicanti di Blade Runner: una citazione che mette a proprio agio qualsiasi fan della fantascienza e lo rassicura sul fatto di trovarsi davanti ad un film che lavora in quella architettura logica e narrativa. Edwards infarcisce il suo film di reminiscenze di Akira, Terminator 2, Apocalypse Now, A.I. - Intelligenza Artificiale, Pinocchio, Blade Runner, E.T. e, soprattutto, nel tratteggiare la relazione adulto-bambina, Paper Moon di Bogdanovich (anch’esso, nel 1973, un film apparentemente anacronistico negli anni in cui infuriava la Nuova Hollywood). The Creator di tutto questo fa una sintesi estremamente efficace, rendendo evidente le strutture che tornano, si sovrappongono, e aprendo un dialogo tra la fantascienza cinematografica del passato e quella contemporanea d’autore: specialmente nel design, molto più vicino a quello di Simon Stalenhag (Tales from the Loop) e Neill Blomkamp (Humandroid), che a quello “razionalista” di Villeneuve (e anche in questo è forse possibile cogliere una “presa di posizione”). L’Intelligenza Artificiale, stavolta, non è un nemico onnisciente, quasi divino, che non si può comprendere ma solo annientare (come nell’ultimo Mission: Impossible), ma una entità antropomorfizzata da un film che si sforza di inventarle un’anima, persino una cultura e un retroterra religioso. Lo spiritualismo di Guerre Stellari, con elementi mistico-religiosi che provengono dal passato più remoto trapiantati direttamente dentro il futuro più avanzato, viene qui esasperato da un’opposizione quasi taoista tra macchina e spirito, che finisce per risolversi in una eccezionale possibilità di convivenza tra la natura incontaminata e l’artefatto umano (geniale, in questo senso, immaginare la capacità degli animali selvatici di vivere e collaborare con le I.A. come se fosse la cosa più naturale del mondo).

Come nelle migliori declinazioni cinematografiche del concetto di “space opera”, si vorrebbe sempre sapere qualcosa di più sui combattenti e sui civili IA in cui il protagonista si imbatte lungo la sua avventura e sulla società che li circonda. L’imperialismo americano è stato descritto in maniera negativa in tanti altri film, ma un brivido di trasgressione sale lungo la schiena osservando la rappresentazione così schiettamente crudele che ne fa Edwards, per giunta in un film distribuito dalla Disney.  Ogni entrata in scena dell’esercito statunitense rappresenta una minaccia dalla quale difendersi - anche se il conflitto inevitabilmente radicalizza e rende spietati entrambi i belligeranti - e si finisce per tifare fieramente per chi lo osteggia.