Oliver Masucci, straordinario attore noto al grande pubblico specialmente per i ruoli di Adolf Hitler nel film Lui è tornato e per quello di Ulrich Nielsen nella serie televisiva Dark, è il responsabile dell’hotel-Titanic arroccato sulle Alpi svizzere in cui si svolge l’ultima follia di Roman Polanski: The Palace. Un tour de force della decadenza e della vecchiaia decrepita in cui Masucci, dovendo rispondere alle richieste più folli e capricciose dei suoi clienti, trascina lo spettatore senza sosta: di camera in camera, di ambiente in ambiente, dalle cucine al caveau, facendoci percorrere tutto il Palazzo che si prepara a festeggiare la fine del 1999, salutando così il nuovo millennio.

Abbiamo avuto modo di chiacchierare con il protagonista del film e di farci raccontare la sua esperienza sul set.

D: Polanski è famoso per essere un maniaco del controllo sul set e per avere lultima parola su ogni aspetto della messa in scena. Questo in che modo influisce nella direzione degli attori?  

È vero. Polanski è un regista che ha l’assoluto controllo su ogni aspetto del film. In questo caso, specialmente sulla scenografia e i costumi, che sono essenziali quando si fa una commedia di questo tipo. Non erano rare le discussioni con i professionisti che si occupavano di queste cose. Ogni minimo dettaglio era per lui fondamentale e girava sempre con delle forbici in tasca per tagliare, accorciare, sistemare. Non solo vestiti, ma anche parrucche e capelli... Dal punto di vista dell’attore, questo è molto liberatorio. Perché l’attenzione del regista non è solamente su di te. Si prova la scena, lui ti suggerisce qualcosa e ti dà delle indicazioni, dopodiché passa ad occuparsi di altro e tu hai il tempo di fare tuoi quei consigli e sperimentare sul personaggio. Abbiamo riso parecchio sul set, anche considerando la stupidità goliardica di alcune scelte, come ad esempio quella del mio finto accento svizzero, che era una cosa che faceva molto ridere Roman.

D: Immagino, quindi, che non ci fosse molto spazio per  l’improvvisazione...

Beh, ogni tanto azzardavo nel dare qualche consiglio. E lui mi rispondeva sempre: “Grazie, Oliver. Ho fatto ventisette film, ma apprezzo molto i tuoi suggerimenti” (ride, ndr)

D: Questo suo perfezionismo, il voler prestare attenzione ad ogni cosa, però denota anche una enorme cura e preoccupazione per la buona riuscita dei suoi film, che non è sempre una cosa scontata, specialmente all’età di Polanski...

È proprio così. Lui vive per questo. In uno degli ultimi giorni di riprese, Polanski era stato ricoverato in ospedale a causa di un’infezione. Ha costruito la scena da girare dalla sua camera, con uno schermo a distanza, ma quando si è trattato di dare il ciak e controllare ciò che si doveva girare, è venuto direttamente lui sul set, con l’ago della flebo ancora nel braccio. Se non è voglia di fare cinema, questa… Era tremante, stanco, ma quando si è trattato di dare il via, ho visto qualcosa scattare in lui. Era di nuovo presente, era lì, attento su ciò che c’era da fare. Quella scena l’abbiamo girata con un solo take, su mio consiglio. È stato l’unico momento in cui ha prestato ascolto, evidentemente perché era così stremato da potermi dare ragione.

D: La filmografia di Polanski contiene almeno tre o quattro film che sono universalmente considerati capolavori del cinema contemporaneo, che ogni appassionato ha visto almeno una volta nella sua vita. Qual è stata, negli anni, la tua relazione con il suo cinema, innanzitutto da spettatore?

Il mio primo approccio con Polanski è stato prima con Per favore, non mordermi sul collo! e poi, subito dopo, con Rosemary’s Baby. Avevo 16 anni. Ma c’è stato un film che mi ha colpito diversi anno dopo, quando l’ho visto, e che non avevo inizialmente idea fosse diretto da Roman Polanski. Penso sia capitato a tutti di trovare un film in televisione, di cominciare a vederlo senza sapere nulla sul suo regista… Beh, quel film era La morte e la fanciulla. Cominciai a piangere e non riuscivo a smettere. È un film bellissimo su come continuare a vivere nonostante il senso di colpa. Che penso sia anche uno dei temi della vita di Roman. L’arte, in questo senso, aiuta a sopravvivere nonostante tutto.

D: Ci si è trovati sicuramente spiazzati davanti a un film comico come The Palace, dal momento che si tende a considerare quello di Polanski un cinema sofisticato e “impegnato”. Quale pensi sia stata la motivazione dietro ad una commedia così profanatoria, anche dell’idea che il pubblico ha di lui come regista?

Non penso che un film debba veicolare necessariamente un messaggio. Non vado al cinema per quello. Alla fine, l’obiettivo di tutto ciò che facciamo è quello di intrattenere. Alcuni giornalisti hanno inteso questo film come un grande “vaffanculo” gridato da Polanski. Beh, non lo so, ma anche se fosse vero, direi che a 90 anni hai tutto il diritto di mandare a fanculo qualcuno. O tutti quanti. A voler intellettualizzare il film, si può dire che in The Palace c’è qualche traccia di Cechov, di quell’idea che nessuno può cambiare davvero. O che comunque è molto diffice farlo. Questi personaggi continuano a vivere come hanno sempre fatto, nel lusso e negli eccessi, anche davanti alla fine del mondo, che pensano stia per arrivare. Anche l’apocalisse non riesce a cambiare il loro modo di vivere. In questo film c’è tutta l’inutilità umana: la fine del mondo, in ogni caso, non arriverà. La fine dell’umanità... beh, quella forse sì.

Di The Palace abbiamo parlato anche con un’altra protagonista del film: Fanny Ardant. Leggi QUI cosa ci ha raccontato.