Era il 1990 quando la Rai trasmetteva il documentario di Nanni Moretti dedicato ai militanti dell’allora Pci in fase di scomparsa. Da lì a poco sarebbe arrivata la cosiddetta “svolta della Bolognina” del segretario Achille Occhetto e quella “Cosa” indefinita ed indefinibile che dava il nome al film avrebbe mutato nuovamente forma per trasformarsi nel Partito Democratico della Sinistra. A distanza di 28 anni da quel 1990, Nanni Moretti torna a dirigere un documentario definendo questa volta già nel titolo i luoghi e i fatti di cui si parla: Santiago, Italia. Siamo quindi nel Cile del 1973, quando un colpo di Stato militare rovesciò il governo democraticamente eletto di Salvador Allende. Nanni Moretti ricostruisce quella vicenda attraverso i ricordi e le testimonianze di chi l’ha vissuta in prima persona, cedendo a quella commozione e dolcezza esibita che forse anni fa avrebbe considerato “ruffiana” e dalla quale ora invece sembra non poter prescindere per parlare di questa storia di solidarietà ed accoglienza.

Quello di Nanni Moretti non é quindi un film sulla figura di Salvador Allende (nel 2004 c’è già stato l’omonimo film diretto da Patricio Guzmán, fra gli intervistati scelti dal regista) né un film sulla dittatura militare di Augusto Pinochet (che non viene mai nominato da nessuno degli intervistati e sulla cui figura sono stati realizzati diversi lavori, fra cui il corto di Ken Loach all’interno del progetto collettivo “11 settembre”). Ciò che interessa maggiormente a Moretti è la parte che paradossalmente occupa il minutaggio minore del film: il ruolo che il nostro Paese ha avuto nell’accogliere i rifugiati politici all’interno dell’ambasciata italiana a Santiago del Cile e poi nel trasferire quelle persone direttamente in Italia, per dare loro un lavoro ed una nuova speranza di futuro.

Come ne La Cosa del 1990, anche qui Nanni Moretti sceglie di non sconfinare quasi mai in scena ma di rimanere una voce fuori campo che dialoga con i suoi intervistati. Eppure l’unico momento in cui decide di entrare con il suo corpo e con la sua faccia all’interno del film non è casuale. Lo fa per ribadire davanti all’ex generale Raúl Eduardo Iturriaga, all’epoca capo della polizia segreta, che lui “non è imparziale” e che imparziale non potrà mai essere un suo film. Apprendiamo di questa impossibilità dalle parole dello stesso Moretti ma anche dai rapporti di scala all’interno dell’inquadratura: il regista enorme nella parte sinistra dello schermo, che si staglia sul corpo minuto e ridimensionato del militare nella parte destra. Il regista ha quindi sempre il coltello dalla parte del manico e sfrutta questa sua posizione privilegiata affinché tutte le interviste da lui raccolte possano alla fine veicolare il messaggio che gli sta veramente a cuore, cioè che l’Italia di oggi assomiglia sempre più al Cile di allora e che quei valori di umanità e altruismo che caratterizzavano il nostro popolo negli anni ’70 oggi non esistono più.

Nel documentario del 1990, Moretti inquadrava da vicino i giovani militanti per poi allontanare progressivamente da loro lo sguardo della macchina da presa, inserendoli quindi in un contesto che era quello della loro “comunità” di appartenenza (la sezione del partito). In Santiago, Italia la macchina da presa rimane immobile, le inquadrature sono ravvicinate e lo schermo è occupato quasi interamente dal volto di chi parla. Le immagini quindi chiariscono ciò che le parole sembrano solo suggerire: ovvero che le decisioni dei singoli spesso sono fondamentali per cambiare le sorti di una collettività. È stata proprio la decisione di singoli (i diplomatici che in quel periodo lavoravano nell’ambasciata italiana) a permettere a centinaia di esuli politici di trovare rifugio ed ospitalità quando ancora il Ministero degli Esteri (al quale l’ambasciata italiana in Cile rispondeva) temporeggiava.

Quei militanti così appassionati e calorosi de La Cosa avevano ancora fresco il ricordo dell’accoglienza dei profughi cileni (il golpe era accaduto “solo” 17 anni prima) e l’idea di internazionalismo era ancora viva in loro. Dalla visione di Santiago, Italia capiamo quindi come gli italiani del 1973 conoscessero benissimo ciò che accadeva in Cile, comprendevano la situazione di quel Paese così distante dal loro e se ne interessavano come se li riguardasse direttamente. Era la conoscenza di ciò che avveniva al di fuori dei propri confini la chiave per solidarizzare con gli “altri”. Il punto di vista finale del documentario (ovvero che l’Italia di ieri era pronta ad aiutare i migranti, quella di oggi no) non viene esposto da Nanni Moretti ma da uno dei suoi intervistati. Eppure è chiaro che l’opinione espressa dalla persona davanti alla macchina da presa corrisponde a quella di chi si nasconde dietro di essa, che quando deve dissociarsi da qualcosa o qualcuno lo fa in maniera chiara e senza fraintendimenti.

Ne La Cosa le inquadrature non esaltavano l’individualità di chi parlava, ma collocavano visivamente ciascun militante vicino ad altri suoi “compagni”, rendendo plasticamente su schermo la riflessione collettiva di quel periodo. Adesso invece Santiago, Italia condanna l’individualismo del nostro tempo (indicato come il male da eradicare) ma esalta l’individualità di uomini e donne che, proprio attraverso le loro vicende strettamente personali ed i loro ricordi più intimi, ricostruiscono un pezzo di Storia. Come testimoniano le immagini prese da Musica per la Libertà di Luigi Perelli, il nostro era un Paese che scendeva in piazza per gridare la propria vicinanza ad un altro popolo, spronato da figure che si ponevano come guide politiche e culturali (Gian Maria Volontè sul palco della manifestazione pro-Cile con gli Inti-Illimani). Nanni Moretti non vuole essere quel tipo di “intellettuale” ma cela la propria ingombrante individualità (che era individualismo con Michele Apicella) dietro quella di decine di intervistati che parlano per loro ma anche per lui.