Come Michael Haneke con il suo Happy End cercava di riprendere ciò che aveva già messo in scena per osservarlo con uno sguardo nuovo, così Roman Polanski, con Quello che non so di lei, sceglie solo in apparenza di navigare in acque sicure (le relazioni opache, i grandi spazi chiusi nei quali far muovere i personaggi) ma rinuncia invece a quello che definiremmo polanskiano nella sua forma più classica. Se le opere di Polanski sembrano spesso aderire ad un genere che si rivela poi essere qualcosa di diverso, così quello che si propone come un comune film di suspense, con qualcosa di inconfessabile da scoprire, non crea angoscia per ciò che i personaggi si nascondono a vicenda, bensì per quello che celano alla loro anima. Nelle pieghe del nuovo (e poco godibile) lavoro di Polanski sembra esserci un “film nascosto” che vorrebbe rivelarsi, proprio come il “libro nascosto” che Emmanuelle Seigner (Delphine) cova da anni e che Eva Green (Elle) spera di rubarle dal cuore.
Quello che non so di lei è quindi un dramma che non cerca il facile consenso del pubblico, bensì sembra marcare con convinzione quelle che sono le sue mancanze, non essendo mai davvero profondo o complesso e volendo esplorare gli abissi umani solo affacciandosi alla loro superficie e mai immergendosi in essi. Così Polanski narra le insoddisfazioni dei suoi personaggi come se fossero anche le sue, parlando di due donne infelici per ragioni speculari: una che vive nella noia di dover scrivere libri per persone famose che non conosce davvero, ed una che non riesce più a reggere il dolore che provoca lo scrivere di sé e che quindi preferirebbe dedicarsi alla narrazione di finzione.
Ad assumere un ruolo principale nella genesi della nuova opera polanskiana, è Olivier Assayas, erede proprio di quel modo di fare cinema, obliquo ed ambiguo, che ha i suoi modelli originali in Repulsion e Cul-de-sac. Rielaborando il romanzo di Delphine de Vigan per dargli forma consona per il grande schermo, Assayas, proprio come avviene per Elle con Delphine, si è messo al servizio del suo amico, aderendo a quelle che erano le sue indicazioni e dipendendo dalle sue esigenze. Ma se Assayas sembra scomparire nel suo lavoro per Polanski, così Polanski sembra dirigere il lavoro di Assayas senza rendersi riconoscibile.
Perché se Quello che non so di lei somiglia più ad un noir di François Ozon (con la sua ossessione morbosa che ricorda L’amant double e i colpi di scena di Swimming Pool) che ad uno di Assayas, è anche vero che il nuovo film di Polanski non possiede quasi nessuna delle idee visive che lo hanno reso celebre. Scegliendo di nascondersi in un primitivismo artistico quasi anonimo, il prolifico 84enne polacco si serve di una regia invisibile (un unicum per uno dei geni della mise-en-scène) che nella visione frontale dei suoi personaggi trova la sintesi di uno sguardo che osserva il soggetto dalle varie angolazioni.
“Il tuo libro ha permesso a questa violenza di esprimersi!”
― Elle (Eva Green)
Se il modo di inquadrare persone e luoghi non è quello di Assayas, lo sono però alcune delle preoccupazioni che emergono man mano che la vicenda si dipana. Il parigino prosegue, nei margini che gli concede il ruolo di operaio al servizio di un collega, la sua personale analisi dei legami femminili (come quello che univa le due donne in Clouds of Sils Maria) e delle relazioni personali che passano per mail ed sms, ma le cui conseguenze sono reali e palesi. Così se in Personal Shopper il cellulare assumeva una carica quasi sensuale quando le mani ne sfioravano lo schermo per comporre un messaggio, nel film di Polanski è un iPhone a conservare la memoria di ciò che poi dovrà essere messo nero su bianco su un foglio Word.
Quello che non so di lei, per una fiacchezza nei dialoghi ed un incedere che non avvince mai, non é quindi un lavoro piacevole o in grado di appassionare, ma una operazione teorica e cerebrale che raggiunge il suo scopo nella negazione delle immagini e nella affermazione di una egemonia della sceneggiatura sulla sua figurazione visiva. Egemonia messa in discussione solo dalle brevissime sequenze (pochi secondi su quasi due ore di film) in cui la mano di Polanski si rende di nuovo visibile, ribaltando il rapporto di forza tra regia e scrittura, per riconoscere alla rappresentazione un primato sul testo che le era stato fino a quel momento negato. Così una scena marginale ai fini della narrazione, come quella in cui Delphine scende nella buia dispensa della propria villa per disseminare delle trappole per topi, sembra assumere una urgenza che non ha e una centralità che non le è propria solo per il modo in cui viene ripresa.
A spiccare sul didascalismo che Polanski sembra prediligere, anche la digressione onirica di un sogno in cui compare la madre di Delphine che, con il suo bianco e nero, primeggia sullo scialbore visivo che permea ogni cosa. Una allucinazione che, pur possedendo un ruolo accessorio nella economia della vicenda, sembra avere un peso specifico maggiore di quello che davvero ha, perché sono gli occhi ad assegnare alla scena una diversa rilevanza per il cambio di luci e di nuance che la rende unica. Solo avvicinandosi alla conclusione la domanda che pone Polanski diviene comprensibile: è ciò che si scrive ad avere un valore in sé o è il processo di proiezione (nella propria immaginazione o al di fuori di essa, come nel caso di un copione che si fa cinema) a svelare il vero senso delle pagine di un libro e di uno script?
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