Anche se lo stesso Todd Haynes ha subito rifiutato l’etichetta estetica assegnata al suo film da moltissimi spettatori e analisti dopo il debutto a Cannes, è veramente difficile, accostandosi a questo suo nuovo May December, non pensare alla definizione di “camp” data da Philip Core nel suo illuminante saggio dal titolo: “Una bugia che racconta la verità”. Che è esattamente quello che la messa in scena di questo seducente film fa, lavorando tra le maglie di una storia di menzogne e travestimenti affinché da essa possa venire fuori anche solo un piccolo dato di realtà rispetto alla cultura come la intendiamo oggi, allo star system e alla violenta estrattività del “method acting” quando inconsciamente applicato. L’estetica camp di May December, in tal senso, decora la realtà ma non l’abbellisce. Anzi, indugia sugli aspetti più triviali e scatologici, va all’essenza di ciò che è nascosto dietro la posa, nel tentativo di familiarizzare e descrivere la stranezza nel contesto di quella che è diventata per i protagonisti (una coppia che desta scandalo per la differenza di età) la naturale quotidianità. Esattamente l’opposto di ciò che fa la cosiddetta “cultura pop”, che invece camuffa in una narrazione realistica ciò che non è né naturale, né tantomeno verosimile, con la velleità di convincere lo spettatore che sia vero ciò che non lo è mai. Ed è tra questi opposti movimenti che è teso l’ultimo lavoro di Haynes: se la messa in scena esaspera la finzione - con lo zoom, le scelte di fotografia, l’ossessione per gli specchi e le immagini speculari - con lo scopo di afferrare una verità nascosta (l’inutilità del dolore che si provoca agli altri per frivole motivazioni e ambizioni di carriera), l’attrice Elizabeth - ironicamente Natalie Portman, che ha sempre rifiutato la pratica del “method acting” nella sua carriera - ruba dalla realtà della vita altrui ciò che è utile ad alimentare la propria narrazione fittizia.

Si può tentare di dire, con un po’ di spericolata audacia, che l’impianto estetico di May December è una inconsapevole ma limpida traduzione cinematografica dell’apparente impossibilità di definire con precisione il termine “camp” a causa della sua essenziale (quindi non accidentale) paradossalità e ambiguità. Se ogni concetto contiene in sé già il suo opposto, la duplicità del senso, quello di “camp” è esso stesso un infinito gioco di specchi di cui è difficile venire a capo. Come spiegato da Mark Booth, l’estetica “camp” è una questione di sopracciglia alzate, di sorrisi celati, di espressioni equivoche e movimenti trascurabili. Insomma, un codice di gesti quasi insignificanti ma ben pensati e meticolosamente pianificati: esattamente quello che Todd Haynes allestisce qui. In questo senso, May December non è tanto un film “camp”, quanto un film sul “camp”, che ci dice chiaramente come quel tipo di estetica e di atteggiamento - spesso confuso con la parodia - possano essere più salutari, sofisticati ed efficaci rispetto a ciò che invece consideriamo tradizionalmente accettabile in termini di regia, messa in scena e recitazione. Ciò che consideriamo serio e rigoroso. Lo capiamo chiaramente nell’unico momento in cui assistiamo al risultato di tutto quel lavoro doloroso e manipolatorio fatto da un’attrice che vuole tarare al meglio la sua recitazione sulla protagonista reale della storia che è chiamata a inscenare: è davanti a quel film nel film che ci rendiamo conto di quanto quel metodo non sia poi così utile, ne riconosciamo la fallacia e capiamo finalmente come l’ambizione della verità al cinema sia solo una chimera, un supplizio a cui sottoponiamo innocenti vittime di una patologica smania di raccontare il reale come se questo lo si potesse effettivamente replicare in maniera oggettiva, “vera”. È invece sulla finzione che bisogna lavorare se si vuole sperare di dire, incidentalmente, qualcosa di significativo. Non è questo, alla fine, il senso stesso di “camp”?