Dopo aver lavorato sul testo di Vladimir Solovyov in Three Exercises of Interpretation, elaborato finale di un workshop sulla recitazione, mai distribuito, Cristi Puiu, a distanza di sette anni, riesce finalmente a mettere in scena i Tre Dialoghi del filosofo russo, richiamando alcuni degli attori che avevano lavorato con lui a Tolosa e operando piccole modifiche per adattare il testo alla contemporaneità. Dai cinque protagonisti originali (quattro uomini e una donna), scompare il generale, sostituito da una sua ipotetica moglie. Rimuovendo dal racconto l’unico personaggio che parla di guerra dopo averne sperimentato le atrocità, tutti gli argomenti di conversazione hanno uguale valore: non c’è più un interlocutore privilegiato, le cui considerazioni valgono più delle altre perché fondate sull’esperienza personale. La moglie del generale non può che difendere la posizione del marito senza essere mai stata sul campo di battaglia, parlando quindi di qualcosa che non conosce direttamente.
Puiu elimina poi alcuni passaggi troppo didascalici e cambia i nomi dei protagonisti: emblematico, in questo senso, il personaggio di Agathe Bosch (semplicemente “La Signora” nel libro), che prende nel film il nome della “madeleine” di Proust immersa nel tè di tiglio, il cui odore involontariamente fa riemergere il passato. Un passato soggettivo, intimo, un ricordo che arriva senza controllo, senza freno, da riassaporare con ingenuità, proprio come quello descritto ne La Recherche. La coscienza stessa si emoziona per questo ritorno che avviene grazie ai sensi: l’intelletto non interviene subito, ma solo in un secondo momento, per comprendere con consapevolezza quell’attimo speciale. Così anche il lunghissimo film di Puiu, densissimo di dialoghi e speculazioni filosofiche, lo si può comprendere ad un primo livello filmico, ingenuamente, e solo ad una successiva visione lo si può ghermire intellettualmente, facendo propri tutti i meccanismi del pensiero che ne regolano la narrazione.
Come ne La France contre les robots di Jean-Marie Straub, anche Puiu decide di dividere il testo di riferimento in più sequenze cinematografiche (Tre Dialoghi che diventano Sei Sequenze), creando il paradosso di una divisione che funge da agente moltiplicatore. La Storia, nella sua accezione di memoria soggettiva dei fatti, riflette diverse e numerose prospettive sugli stessi eventi, che si parli della rivoluzione russa o di quella francese, della prima guerra mondiale o della seconda, della nascita del cristianesimo o delle origini dell’Islam. Le Sei Sequenze di Cristi Puiu stanno all’opera del pensatore russo come i Tre Discorsi su Dostojevskij di Solovyov stavano al Discorso su Pusckin di Dostojevskij: dal primo ereditano la rigida struttura filosofica, dal secondo i richiami vivaci ai palpiti della folla, che avevano fatto tremare il cuore dei russi nel 1881. Dostojevskij ripetutamente chiariva di non volersi occupare di Pusckin scrittore, ma di Pusckin primo rivelatore dell’anima russa. A sua volta Solovyov dichiarava di non volersi occupare di Dostojevskij, ma soltanto dell’idea fondamentale che ne aveva ispirato l’opera. In egual modo, il regista romeno non trova motivo di interesse nella persona di Solovyov, ma solo negli interrogativi che egli pone.
Per questa ragione, Cristi Puiu, a differenza di Solovyov, non fornisce risposte alle sue domande e fa di tutto per chiarire allo spettatore di non averne, arrivando persino a comunicare questa totale incapacità di risoluzione attraverso la scenografia: è il ritratto di Eulero nella prima sequenza ad informare chi guarda che c’è un enigma destinato a rimanere senza soluzione. Königsberg, un tempo in Prussia Orientale e oggi exclave russa sul Baltico percorsa dal fiume Pregel, presenta due estese isole che sono connesse tra di loro e con le due aree principali della città da sette ponti: è possibile, per i cittadini di Königsberg, fare una passeggiata che attraversi ogni ponte una e una volta soltanto? Fu proprio Eulero, nel 1736, a negare la possibilità di rispondere a questa domanda.
Se molto spazio è dedicato (nel testo come nel film) alla critica del pacifismo tolstojano e della dottrina della non-violenza, Cristi Puiu decide con una scena inedita, violenta nel senso etimologico del termine, di compiere la profezia dell’Anticristo, la cui enunciazione è negata dal montaggio, che interrompe il film nel momento in cui Nikolai si allontana per recuperare il manoscritto sul quale la profezia è stata fissata. Gli ideali di pace e di fraternità sono valori cristiani indiscutibili e vincolanti, ma tali non possono essere ritenuti il pacifismo e la teoria della non-violenza, che invece finiscono col risolversi troppo spesso in una resa sociale alla prevaricazione e in un abbandono senza difesa dei piccoli e dei deboli alla mercé dei prepotenti. Si danno situazioni in cui alla violenza non basta rispondere con gli ammonimenti e le buone parole, ma che necessariamente richiedono una reazione.
La violenza irrompe a metà film, prima della successiva ricomposizione che ne azzererà le conseguenze. Il regista lascia spazio all’Anticristo (che di Cristo negava la resurrezione) e poi lo sconfessa, ribadendo, come Solovyov e Dostojevskij avevano fatto prima di lui, la resurrezione (filmica) come unica eventualità praticabile. I personaggi di Malmkrog vivono in una realtà insulare che marginalizza gli unici elementi di mediazione con il mondo esterno (i camerieri, i servi) e che rischia di essere deflorata da una forza proveniente da fuori. Così il mezzo filmico che li contiene, insulare per definizione, non è esente da questo pericolo. Lo accoglie, per poterlo definitivamente scongiurare. Così facendo, il cinema di Cristi Puiu accusa se stesso e deride la propria tendenza all’elucubrazione.
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