Il nuovo film di Álvaro Brechner sembra fare quello che già faceva The Woman Who Left di Lav Diaz, ovvero prendere un genere “povero”, proprio del cinema di serie B (o inferiore), per piegarlo alla propria visione autoriale senza per questo negare a chi guarda quelle emozioni forti che il genere vuole (e deve) far provare. Se per Lav Diaz il “revenge movie” si allungava e si allargava, respirava e si gonfiava, riuscendo comunque a portare dalla propria parte il pubblico, convincendolo a spalleggiare per la protagonista che decideva di uccidere, così La Noche de 12 Años sembra un “body horror” privo della esibizione di violenza che caratterizza quel tipo di film. Eppure guardando l’opera di Brechner sarà impossibile non provare le stesse sensazioni odiose e sgradevoli che solitamente si provano quando si assiste direttamente a scene di violenza efferata ed insostenibile. Il film ci pone dinanzi ad una incessante tortura, senza però farci vedere i gesti che la provocano. Se è facile inscenare la violenza inflitta e subita per generare indignazione nel pubblico, non lo è raggiungere il medesimo scopo rappresentando un supplizio (non meno duro) che non si consuma nelle percosse, ma nei silenzi e nelle privazioni.
Nelle scene in carcere il tempo si ferma, ogni giorno è uguale a quello successivo e a quello che lo precede. Solo seguendo le conversazioni con i famigliari e con chi lavora nella prigione, capiremo che invece, fuori da quelle mura, gli anni scorrono come sempre inesorabili. Si invecchia, si muore, si cambia. I personaggi non sono però immobili, ma elaborano le loro mancanze e le loro assenze in maniera sempre nuova e diversa, mutando il loro modo di reagire ad una fissa ed immodificabile segregazione che fa sempre più male, come una sevizia che il carnefice rende continuamente più feroce.
Brechner sembra però voler “risparmiare” al pubblico questa angoscia e cerca di “alleggerire” le sue immagini cariche di sofferenza, deridendo il regime con gag alla Bonvi e rendendo alcuni momenti de La Noche de 12 Años inaspettatamente comici. Chi guarda ride con i personaggi, si lascia coinvolgere dai loro scherzi e così capisce come forse proprio nell’ironia José “Pepe” Mujica e Mauricio Rosencof abbiano trovato la forza per sopravvivere e perseverare. Persino le allucinazioni di cui divengono preda i due Tupamaros, che si inseriscono nella narrazione lineare della loro prigionia, sembrano “concessioni” che il film fa per dar sfogo a quel bisogno represso dei suoi personaggi di scrivere, comunicare, ideare qualcosa. Brechner usa il linguaggio del cinema come mezzo per vincere l’agonia. Come gli “ostaggi” di cui parla la trama cercano in ogni modo di scappare con la mente dalla loro condizione di reclusi, così il regista cerca come può di rifugiarsi nei flashback, di alleviare il dramma, di coinvolgere chi guarda usando la messa in scena e il corpo dei suoi attori (che sembrano saltare la fase della vecchiaia per passare direttamente a quella della decomposizione) per creare stupore.
Sono stratagemmi che in un qualsiasi altro film simile verrebbero considerati “trucchi” non particolarmente sofisticati, utilizzati al solo scopo di catturare l’attenzione del pubblico nel modo più veloce possibile. Invece, ne La Noche de 12 Años, la storia che ci viene raccontata viene posta in una dialettica serrata con la forma cinematografica scelta per proporla allo spettatore. Brechner si pone quindi il problema di come mettere in scena la propria narrazione, utilizzando gli strumenti del linguaggio filmico per veicolarne il senso.
Al termine della visione avremo l’impressione che il film di Álvaro Brechner si sia svolto davvero lungo dodici anni e non solo nelle due ore proposte su schermo. Crederemo che i personaggi siano stati filmati per tutto il tempo della loro prigionia, ma che, per ragioni prettamente cinematografiche e commerciali, il regista abbia deciso di mostrarci solo 122 minuti di quello che era stato effettivamente girato.
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