Il cinema di Franco Maresco è sempre stato un cinema di contrapposizione di immagini, prima ancora che di punti di vista. Il bianco e nero dal quale Ciccio Mira, prima utilizzatore finale della mafia per comunicare con gli “ospiti dello Stato” (carcerati) e adesso impresario dalle grandi ambizioni (ma dagli scarsi mezzi), non è in grado di fuggire, lo isola dal resto, lo riconduce ad un passato al quale è rimasto aggrappato, quando parlare bene della mafia non era considerato qualcosa di condannabile. Il mondo attorno a lui è cambiato e la mafia, come esplicita il titolo del nuovo film, “non è più quella di una volta”. Ma lui non si è accorto di nulla e continua ad organizzare le sue corride di cantanti neomelodici incapaci e stonati (tra cui spicca il suo pupillo Cristian Miscel, un ragazzo che sostiene, con la complicità di Mira, di essere uscito dal coma grazie all’apparizione in sogno di Falcone e Borsellino, di cui è devoto ma di cui nega l’uccisione per mano della mafia).

Il cinema di Maresco rivela le evidenze negate (memorabile la scena in cui un passante dedica una pernacchia a Mira e lui fa finta di non aver sentito nulla) e sonda con il mezzo filmico la verità di un mondo che cerca costantemente di sotterrarla. Ciccio Mira non è come il Pietro Giordano di Cinico Tv, che ripeteva ad alta voce gli insulti ricevuti, ma un uomo che si crede protagonista di un sistema che lo ha relegato a comparsa. Maresco con una camera nascosta (che ovviamente non lo è) inquadra Mira e il suo sodale alle prese con un discorso da scrivere come Totò e Peppino con la loro lettera alla Malafemmina, ma arriva addirittura ad utilizzare il disegno animato per raccontare una improbabile amicizia (ovviamente non verificabile) tra la famiglia Mira e quella Mattarella, consolidatasi nelle sale del cinema gestito dai Mira (in cui Maresco mette in programmazione Il Settimo Sigillo, del “regista arabo” Ingmar Bergman, e un film di Franco e Ciccio).

Maresco restituisce dignità a queste figure squallide attraverso il mezzo cinematografico, utilizzando le inquadrature di Dziga Vertov e illuminandole con la fotografia dei grandi film hollywoodiani anni ‘50 (quelli in bianco e nero di Joseph MacDonald). Alterna le sue immagini sofisticate a quelle pacchiane delle televisioni locali, rendendole ontologicamente indifferenti le une dalle altre. La manifestazione allo Zen organizzata da Ciccio Mira non è più grottesca delle parate attorno all’albero di Falcone, delle passerelle dei politici romani. I discorsi pronunciati dal produttore Matteo Mannino su quel palco (in cui si citano Falcone e Borsellino solo per le “scuole, i parchi, l’illuminazione stradale”) non sono più ridicoli di quelli pronunciati sui palchi delle manifestazioni “ufficiali”, in cui si parla dell’omicidio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come di una “scomparsa” (lo stesso fa Mira, utilizzando la perifrasi “chiamati da Dio” per non parlare esplicitamente dell’uccisione). Maresco, che in televisione ci ha lavorato per anni, sa bene che ogni immagine, anche se registrata, è sempre “in diretta”, già vista prima ancora di essere vista. Così Pino Maniaci, fondatore di Telejato, emittente locale ora chiusa, accusato di estorsione in un controverso processo, può tornare a realizzare il suo programma come se non avesse mai smesso.

Lo “scetticismo di merda” di Franco Maresco, come lo definisce la fotografa Letizia Battaglia, guarda con lo stesso sospetto sia la retorica delle “piazze buone” e delle “barche della legalità”, che la spietata ipocrisia di personaggi come Mira (ma chi gli ha suggerito di organizzare quella manifestazione? La mafia o lo stesso Maresco? Quando finisce il documentario e comincia il mockumentary?). La Battaglia è quella che salva il film dal suo stesso regista, talmente innamorato del suo mondo grottesco da caderne vittima (non a caso la critica che più spesso viene fatta ai suoi film è quella dell’autocompiacimento). Stavolta è lei a fare da contraddittorio a Maresco, a metterlo in guardia dal suo irrecuperabile pessimismo (“Maresco, a me non piacciono queste battute”, “Hai rotto il cazzo pure tu”). È la “terza voce” di un cinema che invece si è sempre basato sul dualismo vittima-carnefice (attore-regista).

Maresco arriva a chiedere conto a Sergio Mattarella del suo silenzio all’indomani dell’attesissima sentenza di primo grado nel processo sulla Trattativa (silenzio che Mira invece elogia, perché il Presidente è un “palermitano vero”, sa che deve tenere la bocca chiusa e rispondere sempre “nessuno” come Ulisse quando gli chiedono di fare i nomi). Una sentenza che di fatto riscrive il finale della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda, condannando per lo stesso reato (violenza o minaccia a corpo politico dello Stato) uomini di mafia come Leoluca Bagarella e Antonino Cinà (gli unici picciotti superstiti fra gli imputati) e uomini dello Stato come Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno del Ros e Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia.

L’indagine rosselliniana del film, che si basa sull’interrogazione continua delle immagini, arriva in luoghi che altri registi meno cinici di Maresco avrebbero evitato (la struttura psichiatrica nella quale viene ricoverato Miscel). Eppure questa volontà del regista di amplificare le piccinerie dei suoi personaggi, di farne emergere la disperazione e la meschinità, non è sinonimo di cattiveria, ma di una profonda vicinanza umana a questi “invisibili” che trovano nella mafia non solo l’unica istituzione davvero presente, ma anche lo strumento per uscire dall’anonimato al quale sono condannati. La storia è sempre quella di Belluscone (ma il film è meno wellesiano del precedente) e lo spirito di Maresco è ancora quello iconoclasta. Le statue vanno sempre demolite. Perché, a guardarle bene, hanno tutte la faccia di Silvio Berlusconi.