Dopo il successo di Poor Things, Yorgos Lanthimos si ricongiunge nuovamente con il suo storico sceneggiatore Efthymis Filippou (assente sui due precedenti film, decisamente diversi dagli altri proprio nel loro impianto “filosofico”) per espandere, in alcuni casi ribaltare, quegli stessi concetti già esposti con la storia di Bella Baxter: l’illusione del libero arbitrio, la complicata convivenza con il proprio corpo - con la propria biologia, con i propri “fluidi” - e l’assoggettamento a una volontà altrui, esterna da se stessi. Stavolta Lanthimos lo fa con lo stile sadico e glaciale da entomologo, quello che lo ha reso famoso con i suoi lavori art-house europei, condensando in un film quelli che potrebbero essere tranquillamente tre episodi di una ipotetica miniserie tv (la durata per singolo capitolo è quella ormai standardizzata dalle piattaforme streaming: 50-55 minuti). Lanthimos dimostra però di non saper maneggiare benissimo la forma - tutt’altro che semplice - del racconto breve, del mediometraggio, che finisce per amplificare ancora di più la gratuità di alcune scelte fatte per il gusto della provocazione fine a se stessa. Ogni “shock” o svolta narrativa inaspettata arriva senza che nulla prima la possa davvero giustificare. Schiaffi assestati solo con lo scopo - sembrerebbe - di alienare lo spettatore, sfidarlo sul piano del buongusto e della coerenza logica. In questi tre racconti, infatti, emergono altrettanti ritratti di vittime inermi e sadici dominatori, ma il film sembra sempre e comunque preferire i secondi ai primi. Forse perché la sottomissione e la tortura sono ritenute più fotogeniche della gioia e della libertà. O forse perché nella crudeltà dei tiranni Lanthimos vede riflessa la sua (da cineasta).

Se nei primi lavori del regista greco i personaggi venivano collocati sempre in sistemi chiusi, rigidissimi, con le proprie regole, nei quali si inseriva poi un elemento di anarchia e indeterminazione che li faceva esplodere dall’interno, in Kinds of Kindness ci caliamo in contesti sociali già dinamitati, già attraversati da pulsioni più o meno psicotiche e condizionati da dinamiche malate. Non assistiamo più al cambiamento dei personaggi, al loro progressivo allontanamento dal senso comune, ma ci appaiono fin da subito distantissimi da noi, senza che venga concessa alcuna successiva possibilità di avvicinamento. Anche il sesso, in questo caso, non ha nulla di gioioso o liberatorio (come in Poor Things), ma è invece sempre associato a comportamenti sociali disturbanti, utilizzato in scene che dovrebbero suscitare imbarazzo o repulsione e mai eccitazione o desiderio. Ed è così che fa nuovamente capolino quella misoginia che il cinema di Lanthimos ha sempre covato in sé e che negli ultimi anni era stata disinnescata da una ricercata normalizzazione di una poetica a lungo, sotterraneamente, problematica. Come i gesti di “gentilezza” che danno il titolo al film, e che si rivelano invece azioni violente, dannose per chi le subisce, anche il gesto cinematografico di Lanthimos finisce per essere il contrario di ciò che vorrebbe: quasi mai intelligente, raffinato o sagace, ma svuotato di significato, kitsch, meno profondo di quel che tenta di far credere.

Se c’è un reale interesse, in Kinds of Kindness, è la sua totale ostilità nei confronti di chi guarda, anche se furbescamente camuffata con tutti quegli stratagemmi stilistici che Lanthimos ha imparato a utilizzare per rendere l’esperienza di visione “cool”, anche quando spiacevole (o cool proprio perché spiacevole, data l’imperante religione cinematografica del cinismo?). Il dito medio alzato davanti agli occhi del pubblico stavolta rischia di allontanare anche quelli che, in massa, lo hanno spinto sul piedistallo del cinema d’autore che conta e che incassa. Quello che arriva agli Oscar e vince tutto. Kinds of Kindness, in questo senso, è una dichiarazione di assoluta indipendenza. Dopo anni di lavoro nel cercare di allargare la platea dei propri spettatori, di accattivarsi la loro simpatia e compiacere il loro gusto, adesso Lanthimos li mette alla prova, alzando l’asticella di ciò che devono sopportare. Sta agli spettatori decidere se accettare questa ulteriore provocazione o abbandonare il campo da gioco. Infastiditi o, peggio, annoiati.