Il successo dei primi due capitoli di Insidious si deve alla grande abilità con la quale il loro creatore, James Wan, è sempre riuscito ad inscenare in maniera unica la paura pur partendo da canovacci classici, che avevano il loro fulcro nella comunicazione tra il mondo dei morti e quello dei vivi. Comunicazione che può avvenire per mezzo di feticci (The Conjuring) o calandosi in prima persona in un Altrove che, pur somigliando non poco al mondo reale, terrorizza per la mancaza di punti di riferimento, che svaniscono dietro ad una impenetrabile cortina di nebbia. Dopo il secondo episodio, ed il conseguente abbandono del regista che a quella creatura aveva dato forma, si temeva per Insidious una fine ingloriosa, anche per via della decisione di non proseguire la storia da dove era terminata ma di dedicarsi ad una serie di prequel che approfondissero il passato del personaggio di Elise.

Il terzo capitolo, invece, diretto dallo sceneggiatore e co-creatore della saga, si rivelò meglio di quanto si potesse immaginare. E forse era anche prevedibile, considerando la bravura di Whannell (e del suo collega malese) nel costruire saghe durature nel tempo, scegliendo interpreti per ruoli inizialmente piccolissimi ma con la lungimiranza di chi ha poi una precisa idea di come svilupparli e renderli il centro del franchise. Tobin Bell in Saw come Lin Shaye in Insidious.

The Last Key, pur inserendosi in un percorso che prosegue su binari già stabiliti, sembra però decisamente più ancorato alla realtà che immerso nelle dimensioni che esistono parallelamente ad essa. Il celebre Altrove è meno importante nella economia della trama che nei precedenti episodi, così le violenze narrate da Whannell sono perpetrate da persone in carne ed ossa e lasciano vere ferite sul corpo di chi le subisce. Persino il nuovo demone, Key Face, figura che terrorizza per la sua stessa presenza scenica e incarnato da Javier Botet, non è una entità eterea ma spaventa facendo uso dei rumori che produce e attraverso lo stridore delle sue dita.

Questi sono alcuni dei punti di forza del quarto episodio di Insidious che, pur vantando alcune trovate di sceneggiatura davvero valide, sembra non accompagnarle mai in maniera efficace con una regia consapevole. Il giovane Adam Robitel, che al suo secondo lungometraggio aveva la possibilità di usare questa grande occasione per imporre uno stile personale, fa rimpiangere Leigh Whannell, che aveva dimostrato ben altra verve dietro la macchina da presa. Ma quello che di buono c’è in The Last Key (e non è poco) sembra comunque fiaccato da problemi che sono retaggio degli scorsi capitoli, come i “comic reliefs” affidati alla coppia Specs e Tucker, e da una certa prevedibilità nella conclusione.

Ma se c’è forse una cosa che vale davvero la pena evidenziare nel nuovo Insidious è la sua ossessione verso un orrore carnale, una violenza che non è solo onirica ma che lascia segni tangibili sulla pelle dei protagonisti. Questo non è per nulla scontato se si parla del franchise che (insieme a Paranormal Activity) aveva imposto una nuova concezione del genere, dove la paura derivava da ciò che non si vedeva e non da ciò che veniva mostrato in primo piano. Eppure la necessità di recuperare una serie come quella di Saw a pochi anni di distanza dalla sua “pausa” doveva pur significare qualcosa. Il cinema dell’orrore che dalla fine degli anni ’90 al 2007 è stato quello di maggior successo commerciale, da Final Destination ad Hostel, adesso è di nuovo determinante. Così il martirio dei corpi e la sofferenza fisica, dopo un decennio di paure impalpabili ed invisibili, sono tornati ad occupare un ruolo di primo piano in queste storie. The Last Key comprende questa esigenza di rendere di nuovo concreti gli incubi al cinema. Così lo spettatore è in grado di vedere quegli stessi mostri che per i protagonisti non hanno corpo e rimangono irreali.