Quello di Pupi Avati è da sempre un cinema dell’insoddisfazione. Il regista bolognese sembra godere degli insuccessi dei suoi personaggi, a cui guarda con il distacco ironico (non cinico, attenzione) di chi crede che non esista alcuna verità da cercare, nessuna realtà ideale nella quale sperare. Anche l’investigatore pallido del suo nuovo horror padano, Il Signor Diavolo, è un pover’uomo incapace di relazionarsi con le donne, senza amici e con un papà che forse neanche lo riconosce più. Da due anni aspetta un incarico di lavoro serio per dimostrare le sue capacità, ma quando gli viene finalmente offerto capisce troppo tardi che si tratta di un incarico in cui le capacità (supponendo la loro presenza) non contano comunque nulla.
Fin dai tempi di Zeder e de La casa dalle finestre che ridono, i film di genere di Pupi Avati non hanno mai cercato di imporre un proprio linguaggio, antitetico a quello di Argento, che negli anni ‘70 fondò un modo tutto suo di intendere l’horror e il giallo, ma, seguendo regole codificate da altri, avevano l’ambizione di creare un immaginario nuovo, fatto di luoghi (quelli della valle del Po) mai frequentati dai suoi colleghi (attivi principalmente a Roma). E sono proprio i luoghi a dare un senso anche a questa sua nuova incursione nel genere. Paesini in cui la superstizione contadina e la bassa scolarizzazione sembrano giustificare quel satanismo che altrove sarebbe condannato o ridicolizzato e che invece nelle periferie di Avati è quasi sempre accettato (e quelli che non lo fanno, generalmente ricchi borghesi, hanno qualcosa di terribile da nascondere). Non è il Diavolo (“signor” perché lo si deve trattare con deferenza) a fare paura, ma ciò che può succedere se non lo si asseconda.
Il Signor Diavolo è un film di apparizioni: il corpo nudo di una giovane ragazza che si concede allo sguardo solo per pochi attimi, personaggi che scompaiono in un lampo (letteralmente), incursioni ed incontri che non durano più di qualche secondo (le visite al papà malato, le laconiche telefonate con la ragazza che si vorrebbe corteggiare). Così Avati non permette alle sue immagini di formarsi sulla retina di chi guarda, le rimuove e le sostituisce continuamente, attraverso il montaggio e i rapidi cambi di fuoco. Anche gli attori storici del cinema avatiano compaiono nel film come visioni fantasmatiche senza reale consistenza. Andrea Roncato, Lino Capolicchio, Alessandro Haber e Gianni Cavina: spettri che attraversano il mezzo filmico e che nel mezzo filmico si dissolvono.
Gli effetti speciali dal vivo di Sergio Stivaletti (un veterano del genere) scavano come al solito nel corpo degli attori, evidenziando la loro esistenza corporea attraverso la progressiva distruzione e negazione della stessa. In un film in cui tutti i personaggi secondari sembrano muoversi come entità incorporee, sono proprio quelli principali, considerati “non umani” dagli altri compaesani, ad avere una presenza scenica inscindibile dalla propria presenza fisica. Il Male (che esso si presenti in forma umana o animale) è qualcosa di terreno, che crea sgomento proprio per il suo essere materia in un mondo che è invece la proiezione (immateriale) di se stesso.
Questi personaggi inafferrabili, che spariscono dalle immagini e si nascondono, si muovono in un contesto che è invece rigido nella sua fissità: l’egemonia della Democrazia Cristiana (nel nome di Alcide De Gasperi) e l’arretratezza della campagna rurale ferma da decenni. Gli stessi personaggi, rassegnati al fatto che nulla sia destinato a cambiare, sono i primi a rimanere sorpresi dalla rapida mutevolezza delle situazioni. Ma la costante fluttuazione è anche il limite di un film che non sembra mai davvero radicato nelle paure che vorrebbe mettere in scena, che si fa e si disfà costantemente davanti agli occhi dello spettatore. Avati non ha davvero paura di quello che racconta e, proprio come i suoi personaggi, sembra sorpreso da cambiamenti (quelli avvenuti nel cinema horror) che non ha saputo comprendere. E questo suo tentativo di cristallizzare il genere assomiglia molto al tentativo del sagrestano Gino di chiudere i segreti in una botola facendo finta che nulla sia mai accaduto.
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