In poco più di un decennio, il regista e sceneggiatore kazako Adilkhan Yerzhanov si è imposto sulla scena cinematografica internazionale (specialmente nel circuito dei festival europei) come uno degli autori più prolifici e riconoscibili degli ultimi anni. Ambientando quasi tutti i suoi film nell’inesistente villaggio di Karatas (che è un po’ come la contea immaginaria di Yoknapatawpha per William Faulkner), ha saputo giocare intelligentemente con i generi - con una predilezione per il noir - rielaborando vecchie trame classiche attraverso il gusto post-moderno della dislocazione. Il titolo del suo dodicesimo film - Assault - riprende quello del celebre e altrettanto teso Assault on Precinct 13 di John Carpenter, privandolo di qualsiasi componente geograficamente specifica. Un modo per definire immediatamente, nella propria genericità, le atmosfere di un thriller ridotto all’essenziale, volutamente abbozzato, attraversato da un umorismo nero che gioca con le aspettative dello spettatore e che rende ridicole e imbarazzanti quelle scene che il genere imporrebbe invece di caricare di pathos e attesa.
Yerzhanov getta nella mischia l’impreparatissimo Tazshi (Azamat Nigmanov), insegnante di matematica trentenne costretto da circostanze improbabili a doversi impegnare in prima persona nel salvataggio di un gruppo di alunni tenuti in ostaggio da un misterioso gruppo di sequestratori. Dopo essere scappato, terrorizzato, davanti alla necessità di agire (come il padre di famiglia di Force Majeure) e dopo aver confessato alle forze dell’ordine di aver abbandonato i giovani studenti al loro destino per colpa della propria codardia, Tazshi si ritrova a dover “assaltare” la scuola in cui lavora (un assalto che viene organizzato dalle vittime, in un grottesco ribaltamento dei ruoli) assieme ad una sgangherata comitiva di personaggi. Karatas, infatti, è stavolta un villaggio che la neve ha isolato dal resto del mondo, in cui i soccorsi non possono arrivare prima di quarantotto ore. Se il male trova sempre il modo di manifestarsi e di esplodere, il bene ha bisogno di strade sgombre e di condizioni metereologiche favorevoli.
Anche il capovolgimento delle aspettative sull’unico personaggio femminile, quello di Lena (Aleksandra Revenko), presentata come la più determinata del gruppo e persino la più attrezzata dal punto di vista “militare”, serve ad enfatizzare l’inadeguatezza di tutti gli altri uomini, in qualche modo obbligati ad essere “protagonisti” dell’azione da vecchie convenzioni cinematografiche, nonostante la loro goffaggine e il loro machismo ostentato in maniera ridicola. Come spesso accade con i film di Yerzhanov, la trama è semplicemente accennata, archetipica. Ma l’urgenza del “filmare”, se da un lato determina una inevitabile trascuratezza nella sceneggiatura, dall’altro emerge come un desiderio da condividere con lo spettatore. Il regista kazako ha infatti la dote, abbastanza unica, di coinvolgere chi guarda in un gioco cinematografico che esiste principalmente per accontentare chi lo conduce. Un modo per soddisfare un proprio bisogno personale, riuscendo sempre a rendere evidente il motivo per cui quel bisogno debba essere appagato.
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