It was hidden in her and it gave Kant pleasure.
L’Eclisse begins with a wind blowing Monica Vitti’s hair. She is inside a room.

Kant’s was a partly negative pleasure.
Where is that wind from?

Kant took pleasure in what he called Thing In Itself.
She is prowling the room with her eyes down, observed deeply by a man in an armchair.

Thing In Itself was unattainable, insurmountable.
She keeps trying to leave the room.

Nor could Thing In Itself be represented.
Curtains are drawn, the room is full of objects, lamps are burning here and there, who knows what hour of the night it may be? Her hair blows slowly.

Yet through the very failure of its representation, Thing In Itself might be inscribed within phenomena.
She lifts a piece of paper, puts it down.

Kant noted a rustling aside of sensible barriers.
Her unquiet drifts in her, spills, drifts on.

A rotating fan is shown sitting on the table beside the man in the armchair.
Kant felt weak as a wave.

Now she can leave. The surface of the movie relaxes.
Kant let his soul expand.

She walks out into the filthy daylight.
Kant pulled his hat down firmly.

She is a little ashamed but glad to be walking.
Glad to be facing this more difficult dawn.

In “Kant’s Question about Monica Vitti”, poemetto della poetessa canadese Anne Carson, pubblicato in origine sulla “London Review of Books” e poi confluito nella raccolta Decreation (2005), è racchiuso tutto lo sforzo che ha attraversato la carriera dell’attrice romana: il lavoro, lungo decenni, per emanciparsi finalmente dallo sguardo maschile e imporre la presenza femminile al cinema prescindendo dagli uomini che la desiderano, la inseguono, ne determinano l’esistenza. Dopo aver creato una scena in cui un immaginario Emmanuel Kant osserva Monica Vitti come un voyeur dallo spioncino, oggettivandola e riducendola a Cosa, la poetessa, a metà del componimento, supera la fantasia fallica del Sublime kantiano, operando una variazione gerarchica nell’ordine dei versi. Una sintesi grafica perfetta di quella che è stata una carriera tutta tesa a disinnescare la donna al cinema come modello ideale che esiste per tranquillizzare la fantasia maschile, che risponde ai desideri e alle richieste degli uomini. Monica Vitti è passata, film dopo film, da essere “testimone” alle dipendenze di qualcuno (generalmente un regista maschio, dotato di testicŭlus, appunto «testimone», testis, della virilità) a padrona del proprio sguardo.

Un percorso che si è compiuto ironicamente solo con l’ultimo film della sua carriera, quello Scandalo Segreto che scrisse e diresse nel 1989. Per il suo compleanno, Margherita-Monica Vitti, signora della buona borghesia, sposata con Paolo-Gino Pernice, pittore, con un figlio ormai indipendente, riceve in dono da Tony-Elliot Gould, un amico americano pieno di fantasia, una telecamera speciale, che sembra un piccolo robot. All’inizio Margherita sembra spaventata da quell’insolito occhio indiscreto che la segue ovunque. Prima ha paura di lui, lo chiude in un armadio, lo ignora. Poi pian piano diventa il complice a cui Margherita si confida. Un film senza controcampo, in cui l’inquadratura rappresenta sempre e solo l’immagine percepita dalla camera (esattamente l’opposto del doppio punto di vista cinepresa-attore del cinema di Antonioni).

Solo l’occhio della telecamera segue i protagonisti: quando non è accesa, non c’è il film. Ma questa strana telecamera è accesa anche senza il consenso della donna. Si scopre, infatti, che il regalo del suo “amico” altro non è che uno strumento utile a spiare le confessioni dal vivo della protagonista, a registrarle nella convinzione che quel materiale autobiografico raccolto in maniera truffaldina possa essere poi utilizzato per un ipotetico film. Margherita, rivelato l’inganno, capito di essere l’oggetto di uno sguardo che non è il suo, trova la forza per scaraventare giù dal balcone quella telecamera. Ed è con quel gesto che Monica Vitti cerca di scardinare i limiti imposti alle donne in un’industria cinematografica dominata dagli uomini, invitando una futura generazione di registe a raccontare solo le storie che sentono proprie.

Persino nella tetralogia cinematografica di Antonioni, quella per cui oggi è maggiormente celebrata, ai personaggi di Monica Vitti la macchina da presa non concedeva altro che la “falsa-autorità” dei testimoni, a cominciare da Claudia ne L’Avventura: che prima osserva dall’esterno gli eventi e dopo si trova ad essere testimone immobile del tradimento di cui è vittima. Ancora più esplicitamente, nella scena iniziale de L’Eclisse, il personaggio di Vittoria gioca con una cornice come un regista farebbe con la propria inquadratura, organizzando oggetti e immagini all’interno dei suoi limiti prestabiliti: un rettangolo in grado di includere nei propri bordi solo un piccolo pezzo di mondo alla volta, pronto per essere svuotato e riempito incessantemente. E così anche nei due film successivi della tetralogia, è lo sguardo di Monica Vitti (e quello di Jeanne Moreau ne La Notte) su Milano e Ravenna a configurare l’esplorazione che la macchina da presa fa di quegli spazi urbani e suburbani come una narrazione (anche se in potenza, carica di implicazioni ancora da scoprire) e non banalmente come una digressione.

Lo sguardo femminile dei diversi personaggi-testimoni agisce sempre in funzione della volontà del regista, che utilizza la propria attrice come un doppio della macchina da presa, la coglie nell’apprensione della ricerca, nell’atto di osservare le cose con fare estraneo, distaccato, perplesso, ansioso, indagatore. L’impresa di Antonioni è quella di farci vedere “due volte” le cose, raddoppiando lo sguardo della telecamera. E il personaggio-testimone è uno dei mezzi che impiega per farci guardare di nuovo, rendendoci consapevoli delle differenti prospettive possibili attraverso uno strumento che è sempre tele-guidato e mai indipendente. L’attore svolge quindi la stessa funzione della telecamera comandata a distanza di Scandalo Segreto. Uno sguardo nello sguardo.

Da quelle iniziali esperienze cinematografiche, Monica Vitti ha sempre cercato, prima come attrice e poi, nel finale della sua carriera, come regista, di operare un cambiamento nel modo di essere donna al cinema. Lo ha fatto scardinando le convinzioni di registi e spettatori, agendo sempre nella direzione contraria alle loro aspettative, senza chiedere il permesso a nessuno e conquistando da sola quella credibilità che oggi le viene unanimemente riconosciuta. Già nel 1972, sul numero 105 del magazine Bianco e Nero, dedicato alla presenza femminile nel cinema italiano, lamentava per le attrici la mancanza di ruoli alternativi a quelli che l’immaginazione maschile aveva cucito loro addosso: «È incredibile come ci siano così pochi registi e sceneggiatori a chiedersi seriamente cosa pensa una donna, cosa la muove. Quante volte gli sceneggiatori mi hanno detto: “Ma mia cara Monica, come posso scrivere storie per te? Sei una donna. E cosa fa una donna? Non va in guerra, non ha un lavoro interessante. Cosa posso scrivere per te se non una storia d’amore? Fai un figlio con uomo, lui va via, tu soffri”». Monica Vitti ha sempre lottato affinché si potessero scrivere storie diverse e interessanti per le donne, ma soprattutto si è impegnata affinché le donne potessero scriversele da sole.

Monica Vitti ha sfidato lo sguardo che l’autore imponeva su di lei, disegnando un proprio stile, una propria opera, attraverso la ripetizione di ossessioni, gesti e movimenti. Dai tempi di Antonioni in poi, ha preso per mano i registi che l’hanno diretta e con loro ha attraversato “l’alba più difficile” - quella menzionata nella poesia di Anne Carson. Negli occhi di Vitti, il Sublime è diventato tutto ciò che lei voleva e allontanava, “un nudo pensiero” che le faceva desiderare null’altro che l’infinito. Il tentativo di catturare ogni cosa che appariva nel mirino del suo sguardo, la addolorava e la spingeva a chiedersi: “Cosa dovrei fare dei miei occhi?” (Ode to the Sublime by Monica Vitti, Anne Carson). Una domanda a cui ha cercato di rispondere fino a quando ne ha avuto la possibilità. Come Claudia ne L’Avventura, prima personaggio secondario e poi protagonista, Monica Vitti non ha mai cercato di riempire un vuoto (quello, appunto, lasciato dalla scomparsa di Lea Massari nel film) bensì di farsene carico, di assumerlo in sé, rivendicando che dove c’è il nulla, può esistere tutto il resto.

I want everything,

Everything is a naked thought that strikes.

A foghorn sounding through fog makes the fog seem to be everything.

Quail eggs eaten from the hand in fog make everything aphrodisiac.

My husband shrugs when I say so, my husband shrugs at everything.

The lakes where his factory has poisoned everything are as beautiful as Bruegel.

I keep my shop, in order that I may sell everything there, empty but I leave the light on.

Everything might spill.

Do you know that in the deepest part of the sea everything goes transparent? asks my husband’s friend

Corrado and I say Do you know how afraid I am?