Il cinema di Jim Jarmusch è un cinema “de-centrato”, le cui trame si svolgono da sempre alla periferia di qualcosa, distanti da quelli che sono i luoghi di “accentramento” (del potere, del benessere, della cultura). Così, paradossalmente, anche la Centerville di The Dead Don’t Die, a differenza di quanto il suo nome suggerirebbe, non è il centro di nulla, perché è il mondo intero ad essere uscito fuori dal suo asse a causa del “fracking dei poli”. Già dall’allitterazione del titolo, Jarmusch manipola il linguaggio, ne esaspera la reiterazione per svuotarlo progressivamente di senso. «I scream, you scream, we all scream for ice cream» nel 1986, «A wild animal? Several wild animals?» nel 2019. Ma d’altronde il concetto stesso di “zombie movie”, dopo George Romero, non è che una continua ripetizione di un copione già letto (il personaggio di Adam Driver sa fin dall’inizio come andrà a finire perché ha letto la sceneggiatura del film di cui fa parte, ma anche l’appassionato di cinema horror Caleb Landry Jones è consapevole di ciò che succederà). La materia cinematografica è di per sé non vivente e anch’essa si presta ad una incessante riproducibilità.

Siccome le “cigarettes” sono il secondo vizio del cinema di Jarmusch dopo il “coffeee” che lo zombie Iggy Pop reclama disperato, quando si muore ci si trasforma in “posa-ceneri” viventi (o meglio, “non morti”). Jarmusch non cerca però di rifare Romero (e il messaggio “politico” del film, enunciato sul finale, è piuttosto debole) né tantomeno vuole emulare il dinamismo ipercinetico di Edgar Wright in Shawn of the Dead. L’andamento di The Dead Don’t Die è quello classico del suo cinema: lento e scostante. Non è L’Alba dei Morti Viventi né tantomeno L’Alba dei Morti Dementi, ma piuttosto L’Alba dei Morti Indolenti. Come sempre avviene nei film di Jarmusch, i personaggi sembrano impermeabili a tutto (tranne la Mindy di Chloë Sevigny, così ingenua da credere persino a ciò che viene detto in televisione) e non si sorprendono di nulla. D’altronde è vero che l’apocalisse è arrivata, ma i personaggi la stavano già vivendo.

Con The Dead Don’t Die, Jarmusch si rivolge ad una fetta di pubblico molto piccola, ad un club di spettatori che conosce i film precedenti del regista e il suo rapporto con gli attori, rimettendo in circolo molti lavori passati della propria filmografia: i numerosi viaggi in macchina di Stranger Than Paradise (da cui torna anche Eszter Balint), il samurai apolide di Ghost Dog, le fughe dal carcere-riformatorio come in Daunbailò, i luoghi della piccola cittadina che tornano sempre uguali come quelli di Paterson. Gli zombie non ballano come quelli di landisiana memoria (Tilda Swinton li trucca come se fossero comparse di un videoclip dei Culture Club piuttosto che di un videoclip di Michael Jackson) ma rifanno da morti quello che facevano da vivi come quelli di Romero al centro commerciale. Anche prima di morire non erano così diversi dai cadaveri ambulanti che sono diventati dopo essere risorti. Il gioco metacinematografico esplicitato fin dall’inizio (quando la canzone di Sturgill Simpson, che compare anche in un breve cameo in versione zombie, diviene ufficialmente il tema principale del film) alla lunga annoia: i protagonisti sono consapevoli di essere attori di un film (che scherza sul ruolo in Star Wars di Adam Driver e sul pensionamento, più volte rimandato, di Bill Murray, dalla carriera d’attore) e gli attori del film sono consapevoli che l’apocalisse, anche nel mondo reale, non è più un argomento in grado di suscitare sgomento.

Anche The Dead Don’t Die, come altri del regista americano, è un film di “small talk”, di conversazioni sul caffè del bar (“il migliore del mondo”) che finiscono nel momento stesso in cui sembrano cominciare. Nel cinema della “everyday life” di Jim Jarmusch, l’apocalisse si rivela nei più piccoli sconvolgimenti alla routine quotidiana (“la bellezza si trova nelle piccole cose”, si diceva in Paterson, ma lo stesso vale anche per la fine del mondo). Le giornate che si allungano, gli animali domestici che non rispondono più ai loro padroni, i cellulari che smettono di funzionare. La fotografia di Frederick Elmes (storico collaboratore di Jarmusch, ma anche di David Lynch) si fa sempre più cupa man mano che la fine si avvicina, accompagnando la progressiva modellazione del corpo filmico che (proprio come quello degli zombie) si sfalda a colpi di ralenti, accelerazioni ed evidenti interventi digitali.

Il passato, storico e cinematografico, si riduce ad una collezione di memorabilia. Così la filmografia di Jim Jarmusch viene riproposta (ma sarebbe meglio dire “ri-animata”) attraverso i suoi feticci (attori ed oggetti). “The greatest zombie cast ever disassembled” (come recita la tagline del film) è una comitiva di vecchie conoscenze del cinema di Jarmusch (tra cui anche Tom Waits e RZA dei Wu-Tang Clan). Il clima che si respira è quello da “ultimo film prima della fine del mondo”, per cui tutti gli amici di Jarmusch hanno accettato di riunirsi insieme perché forse non ce ne sarà più l’occasione. Un ultimo happening prima di farsi cenere. The dead don’t die any more than you or I. E stavolta neanche gli amanti sopravvivono.