Come nel fumetto di Richard McGuire che lo ha ispirato, il nuovo film di Zemeckis è composto da una sola inquadratura fissa, una finestra sul mondo rappresentativa di uno spazio ben delimitato e, soprattutto, del tempo che lo attraversa. Questo pezzo di terra, colpito per la prima volta durante la Preistoria dall’asteroide che ha annientato i dinosauri, accoglie le fondamenta di una casa e con essa le numerose generazioni che la abiteranno nel corso dei secoli. Non siamo totalmente distanti da quella Hill Valley californiana che nella trilogia di Ritorno al Futuro visitavamo nel 1885, 1955, 1985 e nel 2015. Così come non siamo troppo lontani dalla miniaturizzazione dell’esistenza umana di Welcome to Marwen. Here, infatti, appare subito come una summa di tutte le ossessioni del cineasta americano - il tempo, la casa, il corpo digitalizzato dell’attore - organizzate secondo un dispositivo foucaultiano che le cattura, le orienta e le modella. Non è però un timelapse quello che Zemeckis ci propone. Al contrario, tutto sta nella sovrapposizione delle immagini e delle temporalità, che appaiono su schermo nella modalità Picture in Picture. Un palinsesto che nel fumetto creava uno strano effetto cut-up, da collage fotografico, mentre in questo caso sembra simulare la contemporaneità di tante finestre di uno stesso browser. Questo découpage permanente di corpi e oggetti sfida la linearità del tempo, definendo a modo suo le relazioni di causa e effetto, come altrettante tracce destinate a cancellarsi sovrapponendosi e dissolvendosi (strumento esclusivo del linguaggio cinematografico). Per raccontare tutto ciò, Zemeckis rimette insieme lo stesso team di Forrest Gump: un altro film che, in maniera differente, teneva insieme sconvolgimenti epocali, collettivi, di una società nella sua interezza, con storie più piccole e private, senza che i protagonisti di queste ultime se ne rendessero davvero conto. E così Here pone sullo stesso piano cataclismi, guerre e innocue conversazioni tra parenti, permettendo alla casa in cui è ambientato molto del film di raccontare il passare degli anni attraverso i piccoli cambiamenti nell’arredamento e nel design. Una riparografia (come veniva definita la “pittura delle cose umili”) che ci indica mode, tendenze e costumi di questa o quell’epoca con gli oggetti di uso quotidiano, solleticando il “piacere che dà lo spettacolo della vita modesta e della natura morta” (per citare Proust).
Da Forrest Gump, tornano Eric Roth alla sceneggiatura, ma soprattutto Tom Hanks e Robin Wright come coppia di protagonisti (in una storia che invece, nel fumetto, non aveva un baricentro in nessuno dei personaggi che comparivano e scomparivano). Loro due, proprio per questo riferimento così esplicito al classico del 1994, così resistente - anche a distanza di anni - nell’immaginario collettivo, sono i soggetti principali del sofisticato processo di de-aging digitale che caratterizza il film. Uno stratagemma ormai ampiamente sdoganato anche nel cinema d’autore che stavolta però opera in tempo reale, davanti agli occhi dello spettatore (e persino del regista). Non è qualcosa che viene aggiunto in post produzione (come in The Irishman), sotto lo stretto controllo dei Vfx artist, ma un intervento in diretta, quasi completamente automatizzato e affidato a un’intelligenza artificiale che - come il pubblico - ha immagazzinato nella sua memoria tutto il trascorso cinematografico di quei volti per ri-elaborarli, per sovrapporre sulla loro immagine presente quella di un passato che rievoca subito precisi ricordi e specifiche immagini. La vicinanza della macchina da presa ai protagonisti in scena permette di osservare da vicino questo processo, come in un vetrino osservato al microscopio. Ci si ritrova a poter analizzare a buon ingrandimento il mistero insondabile dell’algoritmo, dell’intelligenza artificiale all’opera, nel tentativo estremo di unire alla verità, purezza e immediatezza delle ambientazioni così meticolosamente ricostruite per dare un senso di realtà, l’artificio del corpo umano digitalizzato, che senza l’aiuto tecnologico degenererebbe e marcirebbe. Come un quadro di Chardin violato da un autore che sa rendere l’esibizione frontale del digitale tanto attraente quanto respingente e persino disgustosa (basti pensare all’epifania scatologica del suo Pinocchio). Ed è proprio da questa improbabile commistione di corpi digitali (al punto, in alcuni casi, da assomigliare a quelli, ugualmente comandati dall’IA di Elemental) e ambientali reali che emerge l’emozione del film, in questi legami impercettibili all’occhio umano tra persone e oggetti inanimati. Concentrando la narrazione principalmente dagli anni Quaranta ai giorni nostri in un contesto famigliare, il film somma le fasi inevitabili della vita, rivela dolorosamente i sacrifici obbligati che segnano un’esistenza, il normativismo e conservatorismo sempre più asfissianti di un’America che perde progressivamente la capacità di creare, inventare, costruire, immaginare il futuro, dove le conquiste di ieri non sono più garantite domani. Affrontando e accettando l’idea dell’inevitabile passare del tempo in un mondo in cui le DeLorean non permettono di eludere le leggi della fisica. E non è un caso che, a differenza del fumetto da cui è tratto, il film non faccia alcun salto in avanti, non immagini un futuro tra mille o ventimila anni, magari ormai privo di vita umana, ma scelga il presente come approdo ultimo della propria narrazione. Che a farlo sia un regista come Zemeckis è commovente e tutt’altro che scontato.
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