Era il gennaio del 1969 quando i Beatles si riunirono ai Twickenham Film Studios con il vago obiettivo di preparare una scaletta e dei brani da suonare nuovamente dal vivo di fronte ad un pubblico per la prima volta dopo tre anni di assenza dalle scene. A filmarli c’era una piccola troupe, anche questa ingaggiata per non meglio specificati - e tutto sommato fumosi - motivi. Erano appena trascorsi i diciotto mesi più duri e scoraggianti della loro carriera: una overdose di anticonvulsivanti e alcool aveva ucciso Brian Epstein, il loro amato manager, nell’agosto del 1967 e i Fab Four si ritrovavano a fare i conti con il loro primo grande flop (il film Magical Mystery Tour) e con gli strascichi dalla travagliata sessione di registrazione del White Album.
Non è quindi un mistero che nella mitologia canonica della band, la pubblicazione del film e dell’album Let It Be sia sempre stata associata al naufragio del gruppo, al momento di maggiore malessere, quando il piglio sempre più autoritario e decisionista di Paul fece impazzire tutti gli altri, spingendo George a lasciare la band, quando cominciarono le battaglie legali e quando John iniziò a prendere contatti con Allen Klein, manager dei Rolling Stones (tra i principali diavoli tentatori dell’infinito giardino della storia del rock). Era l’inizio della fine. Per questo, senza grandi sorprese, quando il film frutto di quelle riprese uscì nel 1970, dopo lo scioglimento della band, fu ricevuto dal pubblico come la triste prova del fatto che le cose non potevano che andare effettivamente male, come il documento che sanciva e giustificava la fine di un’epoca.
Il nuovo progetto di archeologia cinematografica di Peter Jackson nasce quando, alcuni anni fa, i Beatles ancora in vita gli chiesero di recuperare tutto il materiale girato per Let It Be e di montarlo in un documentario che potesse offrire un punto di osservazione diverso, scovando tra più di 60 ore di video e 150 ore di audio una storia completamente nuova da raccontare. Quelli di Get Back non sono Beatles stanchi e pieni di rancore, ma i Fab Four in piena esplosione creativa, che ridono, si aiutano a vicenda, provando non solo le canzoni di Let It Be, ma molto di quello che avrebbe poi composto Abbey Road e persino anticipando i motivi e i temi delle loro successive carriere soliste. Jackson ha lavorato sui filmati di archivio per ore incalcolabili, mettendo insieme frammenti audio-visivi e sfruttando l’I.A. per isolare e ripulire tracce precedentemente non udibili. Ha, in poche parole, creato una narrazione, cercando di dimostrare allo spettatore che la storia come la conosceva, quella raccontata a suo tempo da Michael Lindsay-Hogg, era sicuramente incompleta (se non proprio sbagliata). Get Back fa tutto questo, riuscendo comunque in ogni momento a convincere chi guarda di trovarsi nella stanza con i Beatles e di stare assistendo alle loro prove così come si sono davvero svolte.
C’è un aspetto profondamente meta in questo film di otto ore, in cui spesso i Beatles discutono della loro stessa mitologia, rivelandosi profondamente consapevoli della loro immagine e di essere, in quel momento, sotto lo sguardo scrutinante della macchina da presa. Parlano liberamente del documentario che stanno realizzando (e che lo spettatore sta guardando), domandandosi se culminerà in un album dal vivo, in una performance o in chissà cosa. È in quei momenti che i Beatles sembrano recitare una pièce esistenzialista su come ci si sente ad essere uno di loro dopo che la Beatlemania has bitten the dust. Qualcosa quindi di completamente diverso dalla precedente operazione di archiveology di They Shall Not Grow Old, in cui i soldati sorridevano imbarazzati trovandosi, per la prima volta nella loro vita, davanti ad un obiettivo che li filmava.
Con lo stesso meccanismo di appropriazione e di traduzione da un mezzo ad un altro - dal film al video, dall’analogico al digitale, dal narrativo al non narrativo, dal documentario alla fiction - Peter Jackson stavolta non annulla la quotidianità e il realismo, trasformando ogni soggetto inquadrato in un prodotto del cinema, ma compie l’operazione inversa: cerca di restituire l’illusione di una realtà non mediata dal mezzo cinematografico per scardinare una narrazione (quella sul declino dei Beatles) che proprio il cinema ha contribuito ad alimentare e cristallizzare negli anni. Anche in questo caso si tratta di un lavoro di finzione, di una manipolazione attuata per convincere gli spettatori di qualcosa, ma l’obiettivo finale non è quello di rendere cinema ciò che non lo era in origine (le immagini in bianco e nero, mute, della Prima Guerra Mondiale), bensì di dimostrare l’assoluta parzialità del mezzo cinematografico stesso rispetto alla realtà che cerca di raccontare.
Non è tanto l’alterazione delle immagini a servire la creazione di una narrazione congeniale agli scopi del regista, bensì il montaggio, in grado di testimoniare la co-esistenza di diverse verità, spesso antitetiche tra loro, all’interno di uno stesso archivio audiovisivo. È qualcosa di molto simile a ciò che fa da decenni Frederick Wiseman: estrapolare qualche ora di girato da centinaia di ore di materiale registrato, cercando di consegnare allo spettatore una visione idealizzata di ciò che si è ripreso, convincendolo che quella sia la realtà come si è naturalmente presentata all’occhio della macchina da presa e non invece la versione della realtà che il regista voleva che emergesse. Se quello che appare dai documentari di Wiseman è sempre il migliore dei mondi possibili, ciò che emerge dal film di Peter Jackson è la più conciliante delle narrazioni su quel periodo della carriera dei Beatles. In questo senso lavora anche il restauro delle immagini e la nuova colorazione: il passaggio dai 16 mm ai 35 mm rese il film di Michael Lindsay-Hogg granuloso e scuro, contribuendo ulteriormente a quella percezione di cupezza che aleggiava (per motivi soprattutto extra-cinematografici) attorno al progetto. Le tecnologie utilizzate da Jackson restituiscono vivacità a quelle stesse immagini, arricchendole di sfumature pastellate e avvolgenti che raccontano, anche visivamente, una nuova verità sugli ultimi anni dei Beatles, una affinità musicale che vince i dissidi (che comunque il film non trascura del tutto, ma normalizza) e le reciproche antipatie.
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