Denis Villeneuve è arrivato nelle galassie di Dune come il “macellaio razionalista” (diceva Ceronetti) che appende l’esoterismo ai ganci del frigorifero per vendere il suo lavoro esegetico ad altri che offendono la trascendenza. Come il razionalista lirico positivo, che nella sua secolarizzazione fa della space opera di Frank Herbert un breviario di machiavellismo politico, di geopolitica spaziale che si dipana in una storia di casate e nazioni in conflitto, in cui l’individualità e l’umanità del singolo contano tutto sommato poco rispetto agli ideali che muovono le numerose fazioni in campo. Anche per questo, il protagonista Paul Atreides rifugge dal trovare un legame emotivo con il pubblico, esigendo invece la sua attenzione e i suoi dubbi. Timothée Chalamet viene immediatamente definito dal suo fisico asciutto ed è introdotto - nel primo film - con una battuta di Jason Momoa che ne deride la risibile massa muscolare. Eppure lo spettatore può cogliere subito nella sua espressione la forza del leader: togliendo la forza fisica, rimane quella mentale e spirituale. Film dopo film, quello di Chalamet è diventato il veicolo migliore per storie di giovani dalle grandi speranze, con un enorme potenziale trattenuto in un’apparenza gracile e una mente affilata. Una prova attoriale ancora più limpida in questo sequel, in cui a Chalamet viene chiesto di sostenere il peso di un destino che non desidera, di essere l’eroe riluttante che però, quando richiesto, eroe lo diventa davvero, comunicando questo passaggio con piccolissimi gesti e con il linguaggio dei movimenti.

Atreides, presto soprannominato Mahdi, è un prototipo di eroe proveniente da altrove, nato principe, che diventa un guerriero e infine leader e Messia. Tuttavia, questa seconda metà dell’opera di Villeneuve sviluppa una curiosa circospezione attorno all’avvento di Paul, minando la narrazione messianica con sospetti sul suo fondamento, conducendo lo stesso protagonista prima alla confutazione della profezia che lo vorrebbe salvatore, poi ad aderire convintamente ad essa, o a fingere di aderire (che, in un cammino politico, equivale più o meno alla stessa cosa). Quello di Villeneuve, infatti, è un film d’autore semmai nel senso che decostruisce i canoni del racconto fantascientifico nel blockbuster americano, che non accetta aprioristicamente il “viaggio dell’eroe” e la sua narrazione consolidata, ma la mette continuamente in discussione. Facendo questo, l’opera del regista canadese, man mano che si integra sempre più nel sistema hollywoodiano, sembra esprimere una montante diffidenza nei confronti del cinema e dei suoi poteri di influenza e distrazione sul pubblico. La messa in discussione di narrazioni già scritte, imposte dall’alto su chi le deve semplicemente accettare (e in questo c’è un parallelismo con la profezia di Lady Jessica). Una dichiarazione di intenti splendidamente fuori fase, in un’epoca in cui le uniche narrazioni politiche che osano la retorica messianica sono quelle che voltano le spalle alla catastrofe ambientalista (e in un contesto industriale in cui il principale filone produttivo del cinema americano, quello supereroistico, si è ufficialmente prosciugato).

Questo Dune è però un film che va preferibilmente visto dall’alto, che trova la sua potenza nel momento in cui la macchina da presa miniaturizza le star, le segue da distanze siderali e le rende irrilevanti rispetto al congegno spettacolare che è stato costruito attorno a loro. Quando ci avviciniamo, ne riconosciamo i volti, sentiamo la finzione delle loro parole, ci tuffiamo nella messa in scena che rende evidente la recitazione. Il film, visto da vicino, diventa immediatamente più televisivo (nel senso di dipendente da una narrazione più o meno convoluta) e ci troviamo davanti a quella fantascienza messa in ridicolo recentemente dal Dumont di L’Empire.

Villeneuve, l’intruso cartesiano, puramente materialista, totalmente estraneo al misticismo del racconto, inizialmente sembrava interessato solo alla metafora capitalista, coloniale e ambientalista, con Arrakis che diventa proiezione di un Medio Oriente preda dell’avidità imperialista che ne vuole saccheggiare le materie prime. È invece adesso finalmente apprezzabile lo sforzo con cui il regista tenta anche lui di convincere se stesso dell’effettiva dimensione messianica del Muad’dib, senza ironia, senza distacco, senza cinismo, lottando contro una storia in cui vorrebbe credere fino in fondo, ma che allo stesso tempo è oggetto polemico e di contestazione. Questa opera monumentale riesce davvero a stupire, ad affascinare, quando si camuffa, si nasconde, si svuota della propria narrazione tentando l’elevazione verso il divino (che vuol dire appunto mostrare il vuoto che aspetta di essere colmato). E così anche i suoi protagonisti convincono quando non sono più riconoscibili, sotto il trucco (Austin Butler, meraviglioso) o tutt’uno con il vestito che indossano, che ne copre il volto e li rende elementi di una messa in scena autosufficiente, del prodigio audio-visivo che riesce a dire tutto anche solo con l’uso dei colori, nella maniera in cui riprende la sabbia.