Prima di farlo accomodare a bordo (letteralmente) del suo nuovo film, Ryusuke Hamaguchi offre allo spettatore un lungo prologo sensuale e tragico in cui un uomo, regista teatrale, ascolta la moglie, autrice, recitare nel bel mezzo dell’amplesso la sua prossima sceneggiatura: una storia in cui la donna proietta le sue fantasie, le consegna al marito, prima, dopo e durante l’atto sessuale. Il protagonista scopre che questo testo, nelle stesse modalità, è stato condiviso anche con un giovane attore con il quale la moglie va segretamente a letto. Tiene inizialmente per sé questa rilevazione ma non ha il tempo di confrontarsi a riguardo con lei, che muore per una emorragia cerebrale nel momento in cui il prologo finisce. Il film a quel punto fa un salto in avanti di due anni, quando Yûsuke Kafuku accetta un lavoro ad Hiroshima per mettere in scena lo Zio Vanya di Čechov con un gruppo di attori e attrici estremamente eterogeneo, in cui compare anche il giovane con cui sua moglie lo aveva tradito in precedenza. Mattina e sera, il regista viene condotto nel luogo dove si svolgono le prove da una giovane autista con la quale stabilirà gradualmente una relazione intima che gli permetterà di guardare diversamente il presente e di ripensare la sua passata relazione sentimentale.
Uno sguardo sempre e costantemente filtrato dai finestrini di una Saab 900 per cui il protagonista è ossessionato, ma che non può più guidare a causa di problemi di salute che hanno compromesso la sua capacità di visualizzare oggetti e di mettere a fuoco il mondo che lo circonda. Individuata l’automobile come luogo confessionale, il film acquisisce una direzione: i personaggi, trascorrendo molto tempo in un unico spazio, rivelano più chiaramente allo spettatore le modificazioni nelle loro relazioni, che diventano immediatamente visibili quando lo sfondo è sempre uguale a se stesso. I protagonisti tendono ad aprirsi nel momento in cui condividono la stessa destinazione e si sentono finalmente accomunati da un punto di arrivo che devono raggiungere insieme (cosa che non sempre è vera fuori da quello spazio chiuso, considerando le diverse aspettative che attori e regista hanno rispetto alla rappresentazione teatrale che devono preparare). Il cinema di Ryusuke Hamaguchi è anche in questo caso interessato soprattutto alle diverse possibilità di combinare dialogo e movimento, ai modi in cui si può conferire un determinato valore alle conversazioni lavorando sul luogo in cui queste avvengono o separando il loro contenuto da ciò che avviene su schermo durante il loro svolgimento (che è ciò che avviene in maniera estrema nelle scene iniziali di sesso e recitazione).
È la parola a consegnare la verosimiglianza del film, indipendentemente da ciò che accade nel momento in cui la si pronuncia: quando due personaggi parlano tra loro c’è una relazione che si manifesta in maniera evidente e un’attesa di causa ed effetto (affermazione e replica) che inserisce lo spettatore in un contesto in cui ogni cambio di direzione non può che essere graduale e limitato. Il lavoro meticoloso sulla parola permette così di giustificare le rapide svolte negli eventi che spesso determinano una deviazione inattesa nelle trame di Hamaguchi: concomitanze sorprendenti che sembrano credibili proprio perché i dialoghi che le avevano anticipate erano serviti a convincere chi guardava della plausibilità e della naturalezza di ciò che sarebbe avvenuto dopo. In Drive My Car è lo stesso testo di Čechov, la sua parola appunto, a garantire l’ancoraggio del racconto, la cui verosimiglianza è costantemente messa in discussione non tanto dalle coincidenze estreme (come nel precedente film del regista, Orso d’Argento a Berlino) ma dalla diversità di lingue che gli attori utilizzano per comunicare tra loro e per recitare nei ruoli che gli sono stati assegnati. Non c’è alcuna incomprensibilità godardiana: tutti sembrano sempre capire le parole degli altri, nonostante queste vengano espresse in lingue spesso sconosciute a chi le sta ascoltando. Uno stratagemma narrativo ovviamente implausibile, che diventa accettabile dallo spettatore proprio grazie all’aderenza al testo teatrale di riferimento, binario del racconto e guida di un formidabile road movie da fermi.
Il protagonista di Drive My Car legge continuamente il testo di Čechov, lo fa ripetere ai suoi attori fino allo sfinimento, lo ascolta da un nastro registrato dalla moglie. Hamaguchi si sporge così sul bordo tra ciò che ci diciamo e ciò che invece accade, riflettendo sulle infinite possibilità di interazione tra il pensiero esplicitato attraverso la voce e l’azione, il gesto. Trovando infine una radicale affermazione di entrambi, la loro definitiva co-esistenza, in una ragazza sordomuta che recita con la lingua dei segni (dei gesti, quindi) il ruolo di Sonia: pensiero e azione finalmente coincidenti e inseparabili.
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