C’è sempre la premura nei confronti dell’altro, il sollievo fisico ed emotivo che nasce dall’incontro con una persona estranea, al centro del cinema di Tsai Ming-liang: quella “gentilezza degli sconosciuti” codificata da Tennessee Williams nella battuta finale di Un tram che si chiama desiderio. Come già succedeva in I Don’t Want to Sleep Alone, in cui due uomini raccoglievano dalla strada il malconcio Lee Kang-sheng dopo un pestaggio e se ne prendevano cura, anche in Days c’è un protagonista (sempre lui, ovviamente) immobilizzato da un dolore alla schiena che trova in un giovane ragazzo di Bangkok (migrante, proprio come i benefattori del film del 2006) la possibilità di alleviare la propria sofferenza. Chi pensa di essere solo non lo è mai veramente, per questo l’isolamento degli esseri umani in Tsai Ming-liang non è mai disperato, assoluto: il suo cinema si discosta dalla semplice constatazione nichilista e i suoi film, pure nei momenti di profonda tristezza e solitudine, lasciano comunque uno spiraglio per un fragile fascio di luce.

Lee e Anong sono amanti per una sola notte, ma il loro legame sarà per forza di cose destinato a durare più a lungo. Tsai Ming-liang aveva già dichiarato le proprie intenzioni a Le Monde quasi sedici anni fa, nel novembre 2005: “Osservo l’amore in ottica buddista, come un misto di determinismo e precarietà. Così, ogni incontro, non appena avviene, è già eterno, anche se non dura nel tempo”. In un gesto di tenerezza che segue una sensuale seduta terapeutica consumata in una anonima stanza d’albergo, il personaggio di Lee Kang-sheng regala a Houngheuangsy (al suo debutto come attore) un minuscolo carillon che riproduce il “Terry’s Theme” composto da Chaplin per Luci della ribalta. E si torna nuovamente a I Don’t Want to Sleep Alone, in cui già risuonava “Xin Qu”, versione mandarina di “Eternally”: canzone basata proprio sul tema composto per il capolavoro del 1952, ultimo film americano del genio britannico. Se prima, inserendo la versione con testo, Tsai Ming-liang disattendeva provocatoriamente l’imperativo eteronormativo della canzone, in questo caso la relazione con il tema di Chaplin (nella versione strumentale, come era in principio, prima che Geoff Parsons e John Turner ci aggiungessero le parole) non è più per antagonismo, ma per accordanza. Anche il suo film parlava della stessa “kindness of strangers” di cui parla il cinema di Tsai Ming-liang, raccontando di un anziano clown, ormai sul viale del tramonto, che salva una giovane e avvenente ballerina che tenta il suicidio perché, paralizzata alle gambe e stanca di vivere, è afflitta dalla negatività della sua esistenza (la stessa cosa che avviene in Days, ma tra due uomini e con un ribaltamento anagrafico). La musica del anni ’50 e ’60, già utilizzata in The Hole, non è quindi più un contrappunto ironico, ma recupera la sua originaria innocenza.

La filmografia di Tsai Ming-liang è ovviamente fatta di scelte di casting che creano la consapevolezza del tempo - un esempio sono gli attori del classico wuxia Dragon Inn (1967) che si guardano sullo schermo nel suo Goodbye, Dragon Inn (2003) - ma è il suo decennale impegno sul corpo di Lee Kang-sheng (accompagnato nel suo invecchiamento e nelle sue problematiche mediche) a rendere il suo cinema una enorme riflessione sugli anni che passano. Perseguitato da un vasto archivio di immagini di se stesso da ragazzo, poi da giovane adulto, prima di essere ammaccato dalla malattia, Lee Kang-sheng in Days è - come l’anziano Calvero che rivede le foto dei suoni anni più gloriosi - consapevole dell’evoluzione (e del decadimento) della sua immagine negli anni. Il cinema di Tsai Ming-liang è infatti, tra le altre cose, una pratica ritrattistica che si sviluppa nel corso di decenni, mappando quei cambiamenti che sono impercettibili all’occhio nel momento in cui avvengono e che possono essere registrati solo successivamente.

La nozione (anch’essa buddista) del rensheng ru ji (“la vita umana è una dimora transitoria”) ben definisce un cinema basato sul senso spaziale dello spostamento e sul senso temporale di impermanenza. Nei film di Tsai Ming-liang, quella nozione trova la propria rappresentazione ideale nella valigia di What Time, nel materasso galleggiante di Visage e adesso nel carillon di Days, utile solo a riprodurre una musica condannata a svanire dopo pochi secondi. Kang, terminato il massaggio, aspetta che il ragazzo esca dalla stanza, poi lo insegue, invitandolo a cena nel tentativo estremo di beneficiare quanto più possibile di quel momento di compagnia, di dilatare al massimo un frangente temporale destinato prima o poi a concludersi e di estinguere un debito che non può essere ripagato semplicemente con il denaro.

Ma proprio in quella transazione economica, in cui emergono esplicitamente le differenze di classe, così distante dalla compassione disinteressata dei due uomini di I Don’t Want to Sleep Alone, il nuovo film di Tsai Ming-liang disinnesca la concezione di cura come qualcosa di dovuto esclusivamente nei confronti di se stessi, di privato e personale (come da concezione neoliberista: la cura della propria pelle, del proprio corpo ecc.). Days ricorda che la cura è anche un lavoro, spesso svolto da chi non è nelle condizioni di richiederla (e riceverla). Non cerca mai di inserire forzatamente il romanticismo lì dove non c’è, ma non è nemmeno così cinico da suggerire che il pagamento (la cura intesa come servizio erogato) diminuisca il pathos di ciò che accade e le relative conseguenze benefiche. Dopo il tormento fisico, in completa solitudine, che Lee Kang-sheng sperimenta nella prima metà del film, la sua pelle cerca e trova uno sfregamento terapeutico che la ringiovanisce. Tsai Ming-liang coglie ancora una volta la complessità dell’essere al mondo, soli o in compagnia. Segue con lo sguardo il movimento delle persone in una enorme griglia formata da traiettorie individuali che trovano un senso nei puntiformi luoghi di intersezione.