Fin dalle prime scene Gus Van Sant vuole suggerire al pubblico che il personaggio del suo nuovo film, John Callahan, è un uomo sincero, che è davvero come appare agli occhi di guarda. Le cose che dirà saranno sempre attendibili, sia che le dica da un palco dinanzi ad una folla, sia che le dica rivolgendosi a pochi amici che già lo conoscono. Non a caso stima chi odia il suo lavoro e non ha alcuna paura di dirglielo in faccia. Eppure John, così vero e genuino nei suoi sprazzi di dolcezza come nelle occasioni in cui non riesce a frenare la sua rabbia, sembra immerso in un mondo che vero non lo è per nulla. Le persone che lo circondano sono così sopra le righe da non sembrare reali (ciò che le renderà tali, alla fine, saranno i loro drammi personali, ai quali ogni personaggio del film cerca di sopravvivere) e le sue “visioni” lo alieneranno da un mondo che appare sempre meno credibile. Anche il film che lo riguarda sceglie di esporre la sua vicenda (l’abuso di alcool, l’handicap ed il successivo percorso di assoluzione) in una maniera che vuole palesare quando possibile la dimensione fasulla (che poi è quella del cinema) della sua narrazione.
Eppure Callahan, famoso per l’umorismo cinico e aspro dei suoi lavori, sembra essere la sola persona nel film a non possedere per davvero quel tipo di humour. John ammorberà i suoi compagni di viaggio (che hanno problemi anche più grandi dei suoi) con discorsi lacrimevoli sulla sua condizione di disabile e risponderà con aria offesa a chi proverà a scherzarci sopra. I suoi disegni così corrosivi sembrano quindi provenire non dalla sua immaginazione, ma dal mondo che lo circonda. Callahan ruba freddure dai suoi amici, sempre più sagaci di lui, prende le sue idee da ciò che vede in giro e non è mai sicuro dei propri disegni perché incapace di comprendere quella ironia che invece sembra non riguardarlo. Quello del film è quindi un mondo di persone che scherzano sulle cose più dolorose (persino il medico che comunicherà a John della sua condizione di paraplegico finirà per prenderlo in giro) e che si fanno forza a vicenda non commiserandosi ma ridicolizzandosi a vicenda. Eppure ogni personaggio secondario che si aprirà a John parlando della propria esperienza personale sembrerà sempre nascondergli qualcosa.
La professione di Callahan non sarà mai davvero funzionale alla narrazione (per cui è solo un mezzo come un altro attraverso il quale cercare di rinascere dopo un periodo difficile) pur svolgendo comunque un ruolo nella descrizione del personaggio: se il suo lavoro farebbe pensare ad un uomo cinico ed impassibile, il film non perde occasione per suggerirci che invece non è così. Joaquin Phoenix, con le sue espressioni facciali e le sue movenze, descrive un personaggio che per logica dovrebbe essere il meno placido ed il più esuberante di tutti, per via della sua inclinazione alla irriverenza ed alla derisione, ed invece sembra essere il solo normale in un via vai di personaggi eccessivi.
Come in Gerry con Damon ed Affleck, anche qui i dialoghi verbosi fra i personaggi sono usati per far emergere la bravura di chi quei ruoli li ricopre su schermo. Ciascun attore adotterà un approccio diverso per evidenziare i segni peculiari del suo personaggio, proprio come diversi saranno gli approcci che gli uomini e le donne del film adotteranno per riuscire a superare (o anche solo a condividere) i propri problemi. Non è uguale il modo in cui Phoenix, Jonah Hill o Udo Kier sceglieranno di delineare i propri personaggi, così come non sarà uguale il modo in cui questi ultimi sceglieranno di rivelarsi ai loro compagni nelle sessioni di terapia.
Don’t Worry (He Won’t Get Far On Foot) trova quindi il suo fascino nelle idiosincrasie dei protagonisti e nella descrizione che fa di un uomo che tradisce sempre le aspettative di chi lo osserva da fuori e lo giudica sulla base dell’idea che si è fatto superficialmente di lui. Sono questi piccoli tocchi di autorialità (di Van Sant e dei suoi attori) a dare un senso ad una sceneggiatura che sceglie invece di svelare i sentimenti nella maniera più grossolana possibile, lasciando alla regia il compito di approfondire una complessità solo sottintesa.
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