Quello di Guillermo Del Toro è il secondo film di Pinocchio in un anno, dopo quello di Zemeckis. Entrambi film da “piattaforma”, destinati quindi a essere visti anche su schermi di medie, piccole e piccolissime dimensioni. Se però Zemeckis faceva del suo adattamento, coerentemente con il proprio cinema, un invito ad accettare il digitale persino nelle sue forme più posticce, a riconoscerne la maggiore appetibilità rispetto al reale (con l’immagine scatologica del personaggio in cgi che osserva gli escrementi fumanti, ancora più nauseante se vista su schermo cinematografico), quello di Del Toro e Mark Gustafson (già animatore di Fantastic Mr. Fox) è invece il risultato di uno sforzo che vuole a tutti i costi far percepire allo spettatore il lavoro umano e manuale compiuto sulla materia, rendere evidente il meccanismo della stop-motion anche nell’immagine digitale rimpicciolita e riprodotta su dispositivi tascabili. Il suo Pinocchio non è brand deambulante come quello Disney, aggiornabile alle nuove sensibilità ma mai davvero rivoluzionabile, bensì nuovo-ennesimo personaggio di quella personalissima trilogia su infanzia e guerra cominciata con La Spina del Diavolo e proseguita poi con Il Labirinto del Fauno. Del Toro firma così un adattamento alluvionato e fosco, in linea con l’intuizione collodiana di un Pinocchio che non è fantolino miracoloso, ma esempio di nascita temeraria. «Il mondo gli si rivela nella nottataccia di lampi e tuoni, nella neve, nella fame, nell’attentato del fuoco, nella miseria che è miseria davvero», scriveva Manganelli nel suo “libro parallelo” al testo originale. Come altre figure magiche del mondo di Del Toro, anche Pinocchio è nato in uno scoscendimento del mondo, accerchiato dalla sventura, assistito da tremuli e ambigui affetti. D’altronde, è fin dall’esordio con Cronos (1993) che nel cinema dell’autore messicano si possono trovare “tracce mnestiche” del capolavoro di Collodi, personaggi modellati su quelli del celebre romanzo, a cominciare proprio dall’antiquario Jesús Gris, che conteneva già in sé alcuni tratti di Geppetto.
A differenza del ceppo di legno che nel libro arriva al vecchio falegname Ciliegia, il cui «esserci» non è motivato, non essendo mai stato acquistato, trovato o recapitato, il legno da cui origina il Pinocchio di Del Toro è un legno fuoriuscito dal terreno del dolore e del lutto, cresciuto nelle stagioni e poi abbattuto con la consapevolezza di volerlo trasformare in qualcos’altro. Ma non è un atto d’amore quello che sottintende la creazione di Pinocchio, bensì un impeto di rabbia, un delirio di frustrazione e depressione. Il burattino diventa il simulacro del figlio che Geppetto ha perso sotto i bombardamenti, la bara di legno che contiene solo idealmente un corpo che non è più lì. Un oggetto magico già predisposto al fallimento della missione per cui è stato evocato. Pinocchio non riesce a “rimpiazzare” Carlo, a essere dolce e disciplinato come lui, a rimediare con la sua presenza alla disgrazia che ha strappato via un ragazzo dalle braccia del proprio padre. Nella versione del racconto di Del Toro non è il “figlio” che deve imparare a ricevere e accogliere l’amore soverchiante del proprio “papà”, ma è Geppetto che deve aprirsi alla possibilità di amare Pinocchio per quello che è e non per quello che vorrebbe che fosse.
Pinocchio è sempre stata una figura della disobbedienza e anche in questo caso disattende, senza alcuna presa di coscienza, ma spinto solo da un impulso alla vita, i consigli del padre, abbandona la scuola, rifiuta cioè l’idea di diventare il cittadino modello di cui il regime fascista ha bisogno (e il nascente Stato italiano ai tempi di Collodi). Rivela fin da subito una malcelata insofferenza alle leggi e rifiuta sprezzante il controllo di qualsiasi autorità, che sia quella genitoriale, ecclesiastica o governativa. Molte volte fuggirà Pinocchio nel suo inquieto itinerario e fin dal momento della sua creazione, nel saltellare come una lepre nella casa di Geppetto e nel mettere a soqquadro tutte quelle cose di cui non conosce ancora nome e funzione, si configura la sua prima fuga precipitosa, nella quale può subito sperimentare la sua selvatica velocità in un mondo di cacciatori e padroni. Nella prima versione del racconto di Collodi, all’obbedienza Pinocchio finiva per preferire persino l’impiccagione, quasi anticipando quella in croce di Giovanni Stracci ne La ricotta di Pasolini, che doveva morire “per ricordare a tutti di essere vivo”. Nel film di Del Toro avviene l’inverso: potendo Pinocchio morire e rinascere continuamente, ogni viaggio nell’aldilà gli ricorda la precarietà e la finitezza della vita altrui.
Del Toro recupera molte delle idee di Carlo Collodi, scrittore anticlericale, utilizzando come spesso accade nel suo cinema la guerra come sfondo grigio sul quale si stagliano e si rendono visibili le contraddizioni dell’uomo «che fonda ospedali e nello stesso tempo studia armi sempre più micidiali, usa il cloroformio par anestetizzare e poi inventa mine e mitragliatrici, costruisce protesi artificiali ma anche cannoni che tagliano via di netto le gambe» (come scriveva Rossana Dedola commentando proprio alcuni lavori minori di Lorenzini). Se nel romanzo originale la mancanza totale di parrocchie e parroci rendeva evidente l’irrilevanza della tradizione religiosa ai fini della formazione personale e del percorso di iniziazione del bambino verso l’età adulta, nel film di Del Toro la presenza della chiesa rappresenta un ulteriore potere da sbeffeggiare e deridere, mettendone a nudo tutte le iprocrisie (Pinocchio non vede nessuna differenza tra lui, deriso e osteggiato da chi lo considera un “demonio”, e quel Cristo in croce che tutti venerano, fatto del suo stesso materiale). Tutto si gioca sulla differenza tra idea e ideologia: la prima è ciò che si “intaglia” e si crea dall’esperienza, dalla compassione, dalla comprensione di ciò che ci circonda, la seconda è invece qualcosa di già dato, a cui bisogna obbedire senza farsi troppe domande. Il messaggio di questo nuovo adattamento è, nonostante tutte le divagazioni e le licenze che si prende, quello del testo di riferimento: divenire ciò che si è non significa seguire ciecamente e fideisticamente un percorso già noto, ma attraversare e comprendere, come fa Pinocchio, la più radicale alterità. Solo grazie a un lungo e avventuroso itinerario di eventi, incontri, intoppi inattesi che gli fanno conoscere ciò che non è, Pinocchio potrà finalmente comprendere il mistero della propria esistenza.
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