Wim Wenders è forse l’unico grande autore a credere per davvero nelle possibilità poetiche della narrazione in 3D, incoraggiando i giovani registi a sperimentare con la tecnologia e spingendo i distributori a non considerarla appannaggio solo del cinema d’azione. Dopo aver indagato la plasticità del movimento umano in Pina, stavolta l’oggetto della riflessione è la plasticità dell’immagine, raccontata attraverso l’arte di Anselm Kiefer. La tecnologia utilizzata da Wenders diventa perciò fondamentale per “aprire” l’opera del pittore e scultore tedesco, mostrando al proprio interno fossili di stati precedenti e reminiscenze che rivelano come, tutt’altro che progressiva e omogenea, la Storia costituisca un assemblaggio di tempi e modelli visivi assai eterogenei. Ma anche per restituire la complessità del frammento, rendendo riconoscibile, attraverso la stereoscopia, materiali diversissimi per consistenza e texture quali pigmenti, detriti, piombo, cenere, ferro, vetro, paglia, foto, fiori e arbusti, che frequentemente si intrecciano fra loro per ricomporsi in immagini discontinue. Rendere evidente l’estetica del negativo e dell’incompiuto di Kiefer, che meglio si accordava, agli inizi della sua attività, con l’esigenza di affrancarsi dalla mentalità monolitica e onnipotente del regime nazista.

Il 3D conduce così lo spettatore tra i diversi stati “fisici” che lo stesso Kiefer dice di attraversare durante la lavorazione. Prima si è immersi nella materia del quadro, si è tutt’uno con l’esistente, col colore, la sabbia, l’argilla, nell’accecamento dell’istante, in cui non c’è distanza. E poi progressivamente indietreggiando un po’ per cercare di vedere, di distinguere finalmente che cosa si ha davanti. Cercando così di comprendere. L’arte, come dice lo stesso Kiefer, è entelechia, cioè deriva dall’unione perfetta tra il materiale e lo spirituale, anche nelle sue espressioni all’apparenza più rudimentali. Dopo la rivoluzione copernicana l’idea che la Terra, e non il Sole, fosse considerata il centro dell’universo ha smesso di essere valida. All’arte, invece, non si possono applicare gli stessi parametri. Di fatto, un’opera del XX secolo non può pretendere di essere più avanzata rispetto a un’opera del XV secolo. Muovendosi lungo questa direttrice teorica e filosofica, Wenders si interroga su cosa significa progresso e rielaborazione del passato.

Il regista tedesco riconosce in Anselm Kiefer il coraggio che lui, forse, non ha mai avuto: quello di confrontarsi in maniera esplicita con la storia del suo popolo, con i traumi della Storia. Nel 1980, i dipinti di Kiefer provocarono reazioni di perplessità e biasimo a causa dell’utilizzo di un’ampia casistica di temi connessi allo “spirito tedesco”. Biasimo a cui l’artiste rispose in maniera lapidaria: “Non mi identifico con Nerone o Hitler, ma devo ricreare un poco di quel che hanno fatto per capirne la follia. Perciò faccio questi tentativi di diventare fascista”. Dallo stesso desiderio di immedesimazione e di proiezione speculativa nasce il documentario di Wenders, dalla volontà di comprendere il modus operandi di Kiefer, che emula in parte il progetto dell’alchimia, la sua ambizione di mutare i metalli in sostanza aurea e di risanare infine la caducità della materia e dei corpi mortali.