L’Uzbekistan del nuovo film di Kiyoshi Kurosawa è una terra di “gnomi, orchi e arpie dalle unghie ricurve”, ma anche di principesse e fate. Un paesaggio da fiaba che rimane tale anche se le figure fiabesche che lo caratterizzerebbero sono invisibili, “forme inconsistenti" che i sensi avvertono come si avvertono il vento e l’aria. Yoko le percepisce, sono lì con lei. E tanto basta per renderla preoccupata. Dopo il maldestro tentativo fantascientifico di Yocho (Foreboding), Kurosawa ribalta la formula: non più un film di fantascienza che fa di tutto per non sembrarlo, ma un road movie che fa di tutto per sembrare un film di fantascienza. Universi paralleli e portali per altre dimensioni nascosti in mercati affollati come in un racconto di Ted Chiang. È cibo crudo che deve apparire cotto, nausea che deve sembrare gioia. Tutto in Kurosawa è mistificazione e dissimulazione.

Anche To the Ends of the Earth è un film di specchi: banalmente la mini-troupe protagonista del film è l’immagine speculare di quella (vera) che li riprende, ma così l’Uzbekistan (una delle sole due nazioni al mondo doppiamente senza sbocco sul mare: non lo ha direttamente e confina con Stati che anch’essi ne sono privi) è l’immagine speculare del Giappone (arcipelago). Yoko, che l’etimologia vuole figlia dell’oceano e figlia della foglia, si ritrova quindi in un territorio arido e mai bagnato dall’acqua. Atsuko Maeda (che prima di diventare attrice era la cantante del popolarissimo gruppo j-pop AKB48, non casualmente) vende il proprio sorriso ma vaga per una terra in cui è pericoloso ammiccare. L’immagine televisiva di sé è perciò l’unico conforto alla dislocazione, il mezzo nel quale cercare protezione e attraverso il quale raggiungere il proprio popolo (proiezione, ovviamente, e mai spostamento fisico). Nell’eterna ripetizione del carosello, nell’obbedire al fare e al disfare connaturato nel mezzo filmico, sta la consapevolezza di una donna che accetta lo show, la finzione ripetuta ed infinita che questo richiede.

Ancora una volta, come già avveniva in Tokyo Sonata, la catarsi cinematografica corrisponde con una esecuzione musicale. Non più il “chiaro di Luna” di Debussy, ma “l’inno all’amore” di Édith Piaf. Yoko la esegue con l’intensità della cantante francese (che svenne il giorno in cui dovette dedicarla al suo amante tragicamente scomparso) ma la versione è quella di Utada Hikaru utilizzata in patria per la pubblicità della Pepsi. Quanto c’è di sincero in quel brano? Epifania o spot? È il momento, tipico del cinema di Kurosawa, in cui bisogna capire chi si è davvero, in cui i personaggi “arrivano all’oceano” (l’unico arrivo possibile per chi vive in Giappone). È lì che bisogna decidere se fermarsi (accettarsi per quel che si è) o navigare verso nuove sponde.

Il film di Kurosawa è un eterno rimando ad una “cattura” destinata a non avvenire mai, una pesca infruttuosa di un pesce di lago (specchio d’acqua) che non si fa vedere, emanazione fantastica come il rettile preistorico di Real, da trovare affondando le mani in un coma che stavolta è collettivo. È nel disastro, nel trauma, nell’incendio indomabile di una raffineria, che i personaggi si riconoscono. Come sempre c’è la poesia (“la fine del viaggio e l’inizio del mondo”, come suggerisce il titolo originale) e la prosa (il titolo internazionale che copia quello omonimo del programma televisivo giapponese a cui si fa il verso). Fino alla fine della Terra, ma nella inevitabile condizione di turisti che si fermano alla superficie aneddotica delle cose. Si è sempre cartoline esotiche e colorate di se stessi.