C’è una idea potentissima alla base di They Shall Not Grow Old, quella che il cinema, con tutte le sue manipolazioni e mistificazioni, possa essere più reale di filmati d’archivio riprodotti nel loro formato originale, così come furono realizzati. Peter Jackson, che già con Forgotten Silver aveva creato un finto documentario che raccontava di un falso genio del cinema mai esistito, ora falsifica, tratta e modifica immagini d’epoca. Aggiunge l’audio, adegua il frame rate (da 13 fotogrammi a 24) e segue un modernissimo processo di colorizzazione per rendere le immagini della Prima Guerra Mondiale di nuovo reali e credibili per gli spettatori di oggi, rimuovendo da esse la patina del tempo e applicando quella del cinema. Lo fa per piccoli passi, prima decidendo di esplicitare l’anacronismo tecnico dei filmati originali, non ritoccati, e successivamente intervenendo, nell’ordine, sul numero dei fotogrammi, sull’aspect ratio e sui colori.
Una vera e propria operazione di “archiveology”, termine coniato nel 1991 da Joel Katz anche in risposta alle domande sollevate sull’utilizzo dei filmati d’archivio al cinema dal film Dal Polo all’Equatore di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, distribuito qualche anno prima. Un termine che non indica banalmente lo “studio degli archivi”, bensì l’uso delle immagini di archivio come “linguaggio”, la creazione di un nuovo significato attraverso la rimozione delle immagini dal loro contesto sequenziale originale e il loro riassemblamento (la somiglianza con il termine “archaeology” non è casuale, ma suggerisce una dominanza della componente “fisica” e “materiale” dei filmati sul loro stesso contenuto). Separando questi materiali dal loro contesto originario e riorganizzandoli in nuove forme, Peter Jackson è così in grado di veicolare messaggi diversi e personali, facendo emergere significati che non erano messi in primo piano. È un modo di tessere una propria narrazione facendo “parlare” l’archivio, riempiendo i suoi silenzi e le sue lacune, evidenziando (anche attraverso lo zoom digitale) facce prima marginalizzate e utilizzando tracce vocali esterne per amplificarne il senso.
A condurre la narrazione sono le voci dei soldati (anch’esse materiale d’archivio) selezionate e montate assieme alle immagini per formare un lungo racconto per temi: l’arruolamento, l’esperienza in prima persona in trincea, le donne, il conflitto, la paura, il nemico e poi ancora il cibo, l’igiene e la fine della guerra. In alcuni casi le immagini evocate attraverso le parole finiscono per essere decisamente più evocative di quelle che passano sullo schermo. C’è una costante sensazione di inerzia e di calma nel racconto delle consuetudini di questi combattenti, persone comuni che niente sapevano della guerra e che avevano idee molto vaghe di quello che sarebbe accaduto loro. Jackson le monta insieme con un incredibile lavoro di rammendo, riuscendo a creare un’epica coerente e appassionante pur avendo a disposizione testimonianze completamente diverse tra loro e riguardanti episodi ben distinti nel tempo e nello spazio.
Così Peter Jackson nel suo documentario assolve al compito che Walter Benjamin affidava allo “storico”: quello dell’araldo che invita i morti al banchetto del passato. Nella sua concezione le immagini diventano “cose nel mondo”, sottratte alla loro origine narrativa e intese come elementi autonomi. Ma l’appropriazione è anche una questione di traduzione da un mezzo ad un altro: dal film al video, dall’analogico al digitale, dal narrativo al non narrativo, dal documentario alla fiction. E per questo tende inevitabilmente a sottolineare l’obsolescenza delle tecnologie di riproduzione. Come in Paris 1900 (uno dei primi “film-essay” diretto da Nicole Védrès), Jackson cerca in alcuni momenti di far corrispondere al voice-over il labiale delle persone nei filmati d’archivio. Ciò amplifica l’idea che tutto esista solo nella “seconda natura” del cinema. Non c’è quotidianità, non c’è realismo. Ogni soldato che viene inquadrato diviene un prodotto del cinema.
Comprendere il mezzo con cui un periodo storico mette in scena se stesso è fondamentale per comprendere il periodo storico nel suo complesso. Ciò che sorprende dei filmati originali della Prima Guerra Mondiale è il modo in cui i soldati, catturati nel mezzo del loro incubo, sorridono imbarazzati quando si rendono conto che, per la prima volta nella loro vita, sono i soggetti di una cinepresa. La realtà che emerge dal comportamento di queste persone, che manifestano la propria soggezione per la presenza della macchina da presa anche mentre si stanno preparando per il loro calvario, è di per sé un fatto cruciale del periodo, che il filmato non ritoccato ci aiuta a comprendere. Il bianco e nero e il muto sono le caratteristiche principali del modo in cui quel periodo storico si rappresentava, si comprendeva e si dava un senso (d’altronde anche una delle più riuscite parodie di quegli anni, come Charlot soldato, non si basava tanto sulla realtà quanto sulla “registrazione” che di quella realtà veniva fatta dai cinegiornali). Così la specificità dell’esperienza passata viene facilmente trascurata dalla tecnologia contemporanea, nell’impazienza di ricondurre ogni cosa a noi. Il film di Peter Jackson esplicita tutto questo e lo rende evidente, ma allo stesso tempo, proprio essendo incapace di restituire il reale, ci permette di identificarci maggiormente con esso attraverso il cinema.
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