Spesso per fare un buon film horror (ma la stessa cosa vale anche per i film d’animazione e tutti quei generi cinematografici che vivono di grandi sforzi d’immaginazione) basta avere un’idea iniziale ben precisa e ben delineata, un “mondo” coerente con delle proprie dinamiche chiare e facili da assimilare, una trovata interessante da cui poter cominciare e a cui rimanere fedeli. Fatto questo, ci si può poi permettere qualsiasi tipo di divagazione, di incoerenza logica, di slancio fantastico, a patto che vengano rispettate le poche - ma fondamentali - regole d’ingaggio che ci si è dati all’inizio. Lo sa benissimo Coralie Fargeat, già autrice di un acclamatissimo “rape&revenge” con Matilda Lutz, che coniugava femminismo ed exploitation, due cose generalmente agli antipodi, raccontando innanzitutto la storia di un corpo che cambia, si spoglia, si sporca, viene ferito, spezzato, lacerato, si modifica di pari passo al nostro modo di guardarlo e al modo in cui gli altri lo percepiscono (da desiderio a paura). The Substance fa questa cosa alzando ancora di più l’asticella e sdoppiando il punto di vista, mettendo a paragone due corpi: uno giovane, tonico, perfetto per la televisione e la pubblicità (quello plastico di Margaret Qualley) e l’altro, più adulto, che è quello di Demi Moore, ex star di Hollywood in convivenza con la propria traiettoria di star dichiarata superata dagli anni 2000. Qui si ritrova in un ruolo che sfrutta questa sua immagine in chiave metacinematografica, con il personaggio di Elizabeth Sparkle, attrice premio Oscar diventata, per esigenze di carriera, personal trainer televisiva per casalinghe disperate. La donna, pur di non perdere anche questo suo lavoro, che segnerebbe il suo definitivo allontanamento dalle luci della ribalta, cede al patto faustiano (ma c’è anche Oscar Wilde e il suo Dorian Gray, ribaltato) offertole da una società anonima a responsabilità limitata. Un kit fai da te dagli effetti collaterali non meglio specificati che le permette di generare una versione “migliore” di se stessa, espellendola fuori dalla sua carne. Ovviamente, non ci sarebbe bisogno di dirlo, questa nuova versione di sé, più “vorace”, spietata, consapevole del proprio potere e della propria bellezza, finirà rapidamente per vampirizzare l’altro corpo, quello originario, che la nutre di energia vitale.

The Substance, in concorso a Cannes 77, probabilmente sarebbe stato relegato a proiezione di mezzanotte in altri tempi, ma le cose sono cambiate dopo la Palma d’Oro a Julia Ducournau per Titane. Se i riferimenti in Revenge erano Oltre ogni limite, Kill Bill, Mad Max, Rambo e Duel, qui le citazioni sono ancor più evidenti ed esplicite: inaffiando le riprese con fiotti di sangue apparentemente inesauribili, che sgorgano in p.o.v. come in Carrie, rievocando le deformità di The Elephant Man, di cui si richiamano le scelte di sound design, la regista francese riadatta il cinema d’autore d’oltreoceano, senza dimenticare Kubrick e Cronenberg, sfrutta in chiave ironica la propria provenienza europea, ricucinando forzatamente ricette con l’aligot e trippa à la mode de Caen, fino ad approdare nei territori di Brian Yuzna e Stuart Gordon, in un exploit finale che richiama quello di Malignant di James Wan - a cui lo accomuna una coda j-horror in stile Takashi Miike - quando finalmente il film si presenta al pubblico come un freak consapevole della propria mostruosità (che vuol dire irregolarità, imperfezione, riarrangiamento casuale dei propri connotati). Quella che tiene meno, invece, è l’adesione alle proprie regole iniziali, a quelle semplici istruzioni spiegate ripetutamente da un inutilmente comico servizio clienti con la voce modificata. L’incoerenza, in questi casi, distoglie l’attenzione da altro. The Substance comincia infatti davvero a stupire nel momento in cui la protagonista sceglie di disobbedire a quelle indicazioni, liberando lo spettatore dalla fatica di accettare l’implausibilità di numerose svolte narrative, lasciandolo inerme davanti a una esagerata reazione a catena di “effetti indesiderati” che aggiungono, sottraggono, rimodellano la carne, i muscoli, i tessuti, le ghiandole di questo corpo cinematografico in balia delle casualità genetiche, che si adatta, anche stilisticamente, allo stato di deperimento fisico dei suoi protagonisti.