Parthenope rientra di diritto in quel sottofilone “esistenzialista” della filmografia di Paolo Sorrentino che, con quest’ultimo capitolo, potremmo racchiudere in un ideale trittico con This must be the place e Youth: opere di estrema astrazione che il regista napoletano generalmente si concede il gusto di alternare ai suoi film più “canonici” (che sono poi i suoi di maggiore successo, essendo più generosi e ariosi di quanto non lo siano questi altri). Anche in questo caso, come nei due precedenti, la narrazione procede per quadri, la trama è semplicemente abbozzata in una sua traiettoria complessiva e i personaggi principali non sembrano mai propriamente “immersi” nel loro mondo, ma piuttosto lo attraversano fantasmaticamente, con il distacco necessario per poter riflettere su di esso, elucubrare, straparlare liberamente cercando di rispondere ai grandi interrogativi della razza umana con le frasi fatte, ad effetto, dei divi del cinema classico hollywoodiano (un elemento fondante, spesso fastidioso, dello stile sorrentiniano, che qui viene esplicitato e assunto a regola dichiarata, a corroborare la tesi, solo ipotizzabile, di una maggiore e ironica autoconsapevolezza). Sorrentino, da sempre, è però più bravo a lavorare con la poesia, con la suggestione e la sinestesia, che con la filosofia, che finisce per ridurre alla successione di ridicoli aforismi pronunciati con fare sentenzioso da attori che non sembrano neanche loro credere troppo alla reale profondità di quel che dicono. In questo caso, addirittura, alcuni comprimari, come lo stesso Gary Oldman - di cui tanto si è parlato anche per ragioni di marketing - sembrano quasi una cosciente parodia dei personaggi sorrentiniani, consapevoli della loro vacuità, ascetici nel senso che hanno smesso di vivere il mondo, di averlo addosso, e si accontentano di spiegarlo in maniera dozzinale agli altri come se stessero rivelando chissà quali verità ancestrali. Silvio Orlando, ad esempio, è forse più che altrove un sardonico alter-ego del regista: antropologo in assenza di antropologia (ma qui forse è proprio άνϑρωπος a mancare), un professore sulla via della pensione, a prima vista disilluso e disinteressato, ma animato da una sotterranea aspirazione a essere deus ex machina, motore silenzioso di molto di quel che accade (poco, in verità) nel film. Se in Youth la giovinezza era raccontata attraverso il suo opposto (la senilità), anche in questo caso Parthenope non ci dice tanto della giovane ragazza, figura mitologica o semidivinità, di cui si fa riferimento nel titolo, ma invece sembra molto più interessato a raccontarci, attraverso lei, tutte quelle figure che incontra, di cui capiamo qualcosa osservando il mondo in cui interagiscono con lei. È la comunità che viene definita nella relazione che intrattiene con il mito delle proprie origini.

Per tantissimo tempo i napoletani hanno visto e adorato la sirena parthènope nella statua di quel Corpo di Napoli che campeggia maestoso in una piazzetta del centro storico della città (davanti a un altro, forse più celebre, altare pagano: quello del bar con l’edicola votiva di Maradona, in cui è esposta una foto autografata del calciatore e una sua “miracolosa” ciocca di capelli) e che oggi invece è - più correttamente - attribuita al dio Nilo. L’opera fu rinvenuta danneggiata e priva di testa, originando immediatamente un errore iconografico: per circa due secoli il popolo napoletano fu convinto di trovarsi davanti a una statua femminile che allattava i propri figli. “O cuorp ‘e Napule”, per l’appunto, personificazione della città, madre amorevole che nutre i suoi abitanti. Anche quando studi successivi rivelarono la vera identità del Corpo (una divinità fluviale, a cui la comunità alessandrina dell’epoca volle dedicare una statua), tutti continuarono a chiamarlo così. È evidente, anche se largamente inconscia, la metafora, brillantemente esposta da Tomaso Montanari in un suo saggio: il corpo di Napoli è così vivo e sconvolgente, mutevole al punto che può essere corpo di donna o di uomo, o contemporaneamente entrambe le cose, da dover essere esorcizzato nella persistenza di un idolo.

Ed è quello che, forse inconsciamente, fa Sorrentino in questo film, dopo aver dimostrato in più occasioni di saper invece raccontare così bene la cacofonia della sua terra d’appartenenza, quella città “nata da mille sangui”, che ancora oggi rivendica con fierezza una sua identità che, in linea con la propria storia, è un’identità di disponibilità al mondo, di contaminazione con esso, un’identità che è somma di contraddizioni, che si oppone in maniera quasi militante all’ignorante timore del meticciato, al rinnegamento istituzionalizzato della nostra storia di incontro e mescolanza. Il regista, dimenticando la proprietà miracolosa (termine non casuale) del cinema, che permette di sovrapporre, dissolvere, incrociare le immagini, per sfidarne la fissità - che è cosa tipica della scultura, invece - sacrifica qualsiasi tipo di ambiguità sull’altare di una bellezza femminile che è monolitica, indiscutibile, che non comunica altro se non la sicurezza del proprio sesso. E forse proprio per questo risulta meno capace di rappresentare al meglio ciò che in realtà dovrebbe essere volubile, ambivalente, conturbante. Allo stesso tempo, Sorrentino, come da sua inconfondibile cifra stilistica, tiene insieme la “grande bellezza” e l’orrore, la sacralità e la licenziosità più scandalosa, la giovane rivelazione (Celeste Dalla Porta) e la diva ritrovata (Stefania Sandrelli). Ma, come per l’idolo a cui il film è dedicato, il corpo filmico non riesce mai davvero a trovare una sintesi di tutte le cose, a farsi carico di queste tensioni opposte e a convogliarle in immagini di affascinante impermanenza, in grado di reggere al loro urto. Non si avverte mai una presenza viva, un calore, un’incombenza in quello che viene raccontato e la bellissima protagonista rimane un distantissimo oggetto del desiderio. Uno di quei prodotti costosissimi che le pubblicità televisive (con cui questo film dialoga costantemente, complice la co-produzione di Yves Saint Laurent) fanno solo ammirare a un pubblico vastissimo che non si può permettere di averli.