Dopo aver “conquistato” nel primo film l’indipendenza dai padroni bianchi, adesso Jordan Peele, intelligentemente, pone i suoi protagonisti in un mondo che li vede già integrati: sono amici dei bianchi e ci vanno insieme in vacanza. La loro è però una integrazione problematica, che annulla l’unicità di una minoranza per omologarla ai valori della massa. I personaggi di Noi hanno assimilato i comportamenti dei bianchi (lasciare sempre una chiave di riserva fuori dalla propria casa) e parlano attraverso citazioni tipiche dei bianchi. Il problema stavolta è altrove e il colore della pelle non è più la discriminante principale. D’altronde è anche questo il cambiamento che il cinema di Peele ha innescato nell’industria cinematografica americana: avere la possibilità di fare film con protagonisti di colore senza dover “giustificare” la loro presenza attraverso un conflitto razziale. I protagonisti non sono più “neri”, ma finalmente “americans”. E perciò fanno cose da “americans”: vanno in spiaggia, comprano una barca, guardano il football.
Dopo un esperimento di moderna blaxploitation che aveva le sue radici in Yuzna e Gordon (ma che non ignorava il presente del genere, da It Follows a Under the skin), il regista statunitense riprende adesso il cinema di George Romero e lo cala in contesti diversi (quello della home invasion di Michael Haneke nella prima metà, quello fantascientifico di Philip Kaufman nella seconda metà). Come ne La notte dei morti viventi c’è una massa sotterranea (non a caso di sotto-proletari) che emerge in superficie (non esce dalle tombe, ma da cunicoli e tunnel in disuso). E come in Funny Games le ragioni della violenza sono suggerite, ma mai davvero esplicitate. Spiegare le motivazioni di questi individui vorrebbe dire “definirli”, ma quello de “l’altro” è un concetto ontologicamente troppo vasto per essere spiegato in maniera definitiva.
Come nello scorso Get Out, anche in Noi i cambiamenti di una società cominciano sempre dall’unità abitativa. La casa come elemento fondante dell’America, luogo che custodisce la memoria di un Paese come in A Ghost Story di David Lowery. Se nel film d’esordio di Peele il personaggio di Daniel Kaluuya sovvertiva l’ordine costituito di un microcosmo la cui dimensione spaziale coincideva con quella di una residenza borghese, così i nuovi “invasori” cercheranno innanzitutto di prendere possesso delle abitazioni di chi vive in superficie. La “proprietà” è ciò che definisce il loro benessere e quindi la prima cosa che gli deve essere “sottratta”. Ma cosa si nasconde sotto il terreno sul quale sono state poste le fondamenta di quelle case? A scapito di chi è stato fabbricato quel benessere? Noi non risponde in maniera chiara a queste domande. A differenza di Get Out, in cui la metafora politica era chiara e non fraintendibile, Noi è un film allegorico, che non spiega tutto e quindi si presta a diverse letture.
Peele è però bravissimo (e qui le ragioni del successo al box-office dei suoi film) nel costruire la tensione, mettendo lo spettatore in un perenne stato di agitazione che non è mai dato dall’impossibilità di prevedere chi comparirà su schermo, ma dalla lenta somministrazione delle informazioni necessarie alla comprensione di ciò che lo terrorizza (che, però, non è detto che sia davvero conoscibile). Persino la violenza, per quanto attesa da chi guarda, sarà così rimandata in avanti che quando esploderà sembrerà comunque inaspettata. Noi mette in scena la reazione collettiva ad una marginalizzazione durata decenni, all’abbandono consapevole di una fetta di popolazione. Se perdere di vista la propria figlia per quindici minuti può provocare danni difficilmente riparabili, cosa succede se milioni di persone vengono ignorate per una vita intera?
Quello di Peele è quindi un cinema che sfrutta in maniera consapevole i meccanismi del genere, che si assicura che tutto ciò che è funzionale alla sua fruizione funzioni a dovere. Prima ancora delle tematiche, della stratificazione della narrazione, della visione di un autore immediatamente riconoscibile già al suo secondo film, c’è la tecnica. Solo grazie al rigore nella messa in scena e alla sapiente gestione del ritmo del racconto, un film come Noi può puntare ad un pubblico ampio nonostante la sua inafferrabilità concettuale e cinematografica (di nuovo l’horror, di nuovo la sci-fi, fino ad un finale che cerca quasi di costruire una nuova mitologia fantasy).
Peele fa indossare alla piccola Red la maglietta di Thriller di Michael Jackson (ad un certo punto i suoi genitori si muoveranno come gli zombie nel videoclip diretto da John Landis) e al piccolo Jason quella de Lo Squalo di Spielberg (Lupita Nyong’o, come lo sceriffo Brody, guarderà il mare preoccupata, ma stavolta la minaccia non arriverà dall’acqua). I modelli vengono elaborati e “digeriti”. Jordan Peele dimostra che il cinema di genere non è per lui un semplice veicolo per comunicare altro, ma un linguaggio preciso attraverso il quale le sue storie si rafforzano, guadagnando efficacia. Ancora più che in Get Out, in Noi i momenti di maggiore violenza coincidono con quelli di maggiore umorismo. Peele riesce a tenere insieme le due cose, senza smorzare la ferocia e senza esagerare con il grottesco.
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