Nel dicembre del 2016 la famiglia Bellocchio si riunisce al Circolo dell’Unione di Piacenza per un pranzo a cui siedono, tra gli invitati, i fratelli del regista e le due sorelle, Letizia e Maria Luisa, conosciute attraverso i film Sorelle (2006) e Sorelle mai (2010), nei quali il cineasta emiliano era già tornato nelle stanze che covarono il livore de I Pugni in Tasca. Già in quei due film, pellegrinaggi intellettuali di chi in passato si unì al grido di André Gide («Famiglie! Io vi odio!»), i parenti diventavano personaggi cinematografici, soggetti filmici. Adesso, in Marx può aspettare, è Bellocchio stesso a farsi personaggio del suo film, indagatore del trauma che cerca di restituire allo spettatore l’immagine mancante nella foto di gruppo famigliare (il proprio), seguendone le tracce per più anni (cinque) tra i ricordi comuni, diversi in ciascuno degli intervistati, spesso contraddittori, forse inventati.

L’immagine mancante è quella di Camillo, il suo gemello, suicida nel 1968, l’anno in cui tutti i fratelli Bellocchio erano impegnati nella lotta e alle sue tribolazioni rispondevano con trite “cazzate rivoluzionarie”. Gli consigliavano di “servire il popolo” per lenire il dolore, ma per Camillo, turbato da tutt’altro tipo di problematiche, la rivoluzione non era prioritaria: Marx poteva aspettare (la frase compariva già ne Gli occhi, la bocca del 1981, pronunciata dal personaggio di Pippo, ispirato proprio al gemello perduto). Nelle conversazioni, che coinvolgono anche la sorella della fidanzata di Camillo, figura misteriosa e insondabile, da giallo, Bellocchio segue diverse piste, e alla versione della memoria altrui oppone stupore, sorpresa, quasi fosse stato escluso da informazioni decisive. È uno stratagemma squisitamente cinematografico che allo stesso tempo coinvolge lo spettatore nell’indagine e rivela il rimosso di un uomo che, come il resto della famiglia, non aveva capito nulla di quello che stava accadendo all’unico ospite della casa che non godeva di attenzione alcuna: né di quella che richiede la disgrazia (disabilità fisiche e mentali), né di quella che catalizza il successo (i riconoscimenti ricevuti da Marco, il rispetto riservato ai fratelli socialmente impegnati).

Nella prima metà del suo documentario, Bellocchio cerca di capire in che modo i suoi film antecedenti all’increscioso avvenimento possano aver in qualche modo influenzato i pensieri di Camillo e magari orientato la sua decisione finale (quanto della sua vicenda personale, ad esempio, ha proiettato nel personaggio della madre cieca de I Pugni in Tasca, a cui i figli erano letteralmente invisibili?). Nella seconda metà, riflette invece sul cinema da lui realizzato successivamente al 1968: un cinema medicamentoso, in cui ogni film è un reiterato tentativo di spiegare a se stesso il gesto di Camillo e di riflettere sulle disfunzioni della sua famiglia. Ripercorre così quegli anni della sua filmografia in cui l’attenzione si era già spostata dal collettivo all’individuale, avendo deciso di risolvere prima sul piano personale e autobiografico un’impasse socio-culturale che ai suoi occhi non sembrava avere immediate possibilità di risoluzione su larga scala.

È negli anni Settanta che Bellocchio comincia a porre alla base della propria filmografia la sua stessa esperienza privata: una decisione che non determina un distacco dalla realtà sociale, ma che si riverbera necessariamente a livello comunitario, proprio perché il soggetto è, oltre un determinato limite, irriducibile alle istituzioni (politiche ed ecclesiastiche). La prassi psicanalitica, anche la terapia, non tende a ricompattare il soggetto, ma si trasforma in una pratica, un’opera continua di ripensamento del soggetto stesso, così come l’autobiografia non è intesa come rappresentazione definitiva della propria esistenza, ma dialoga costantemente con il ricordo (di per sé mai completamente attendibile) e l’immaginazione. Per sopravvivere alla crisi del cinema europeo, Bellocchio percorre una via d’uscita personale, capendo che solo riconoscendo gli elementi irrisolti a livello speculativo nella sua attività filmica può risalire alla crisi causata dal fallimento delle istanze epifaniche incubate nei decenni Sessanta e Settanta.

Ci sono stati diversi avvicinamenti, in quel periodo della sua carriera, alla vicenda di Camillo. Erano gli anni dell’analisi collettiva con Fagioli e la madre di Bellocchio, a cui i figli hanno sempre raccontato la favola dell’incidente, del gioco macabro finito male, era ancora viva. In qualche modo, quelle presenze impedivano di dire tutta la verità, di poter affrontare di petto il vero tema: l’incapacità di vedere l’altro. Così nel 2015, per realizzare Sangue del mio sangue, l’ennesimo capitolo di un’autonarrazione infinita, il regista aveva già parzialmente anticipato la riunione famigliare di Marx può aspettare, riunendosi a Bobbio con la sua famiglia naturale e con quella elettiva dei suoi attori (i figli Pier Giorgio ed Elena, il fratello poeta, Alba Rohrwacher, Filippo Timi, Lidiya Liberman ed Herlitzka), tornando sulla vicenda di Camillo in maniera indiretta e raccontando del gemello sopravvissuto che si vendica.

Bellocchio cerca nelle immagini una forma di comprensione, guarigione e rivoluzione, che diviene sempre più una questione personale, una battaglia interiore, al di là delle fedi ideologiche degli anni della militanza. Il suo cinema concilia cose che sembrano inconciliabili: è una bestemmia che diventa preghiera, tiene insieme il pudore del privato con l’interesse sfacciato di raccontare se stesso. Marx può aspettare è, in tal senso, il punto di approdo di un percorso decennale che trova la propria verità nell’altrui contraddizione.