Ne La Luna, la prima opera Pixar diretta da Enrico Casarosa, i protagonisti erano spazzini sui generis con il compito di spolverare la superficie lunare dalle lucenti stelle che la ricoprivano, rivelando così al mondo ogni sera un differente volto del corpo celeste. I tre salivano sul satellite e ne modificavano l’aspetto solo per poter nuovamente godere della sua visione dalla terra ferma: un viaggio nel cielo finalizzato ad una migliore contemplazione di esso dal basso. Non deve sorprendere, quindi, se anche in Luca, il primo lungometraggio dell’animatore italiano, l’elemento terrestre del racconto emerga su quello antropomorfo nonostante i due protagonisti siano degli animali acquatici: non solo la trama del film si svolge quasi totalmente in superficie, ma la stessa caratterizzazione del fondale è decisamente meno allettante e suggestiva di quella riservata invece alla piccola città di pescatori, vivida, colorata e affascinante. È sempre quello umano il punto di vista privilegiato: umane sono le aspirazioni dei due comprimari (comprare una Vespa, ad esempio) e umani sono i modi in cui cercheranno di soddisfarle nel corso della trama.
L’idilliaca cittadina del film Casarosa, popolata da personaggi estremamente caricaturali che si muovono su fondali espressionisti e mai naturalistici, è qualcosa di completamente diverso dalla New York di Soul, immediatamente riconoscibile nella sua specificità e impossibile da astrarre e universalizzare (come è invece possibile fare con l’ambientazione di Luca, simbolo di un modo di stare al mondo e di intendere le relazioni umane). Allo stesso modo, la resa visiva dell’acqua non è fotorealistica come quella di Alla Ricerca di Dory, ma cerca piuttosto di suggerire uno stato d’animo, di richiamare per sinestesia gli odori della spiaggia e la sensazione del sale che rimane sulla pelle. Quello di Luca è un mondo in cui le nuvole sono più paffute del normale, in cui ogni elemento restituisce il gesto umano che l’ha disegnato prima del successivo intervento digitale. È principalmente attraverso il disegno che racconta la sua storia: quella di due animali che scoprono improvvisamente quanto è bello essere umani, al punto da essere disposti ad affrontare ogni sfida pur di esaudire il proprio desiderio di diventare come loro (che poi era il desiderio del Pinocchio di Collodi).
Dopo aver raggiunto la perfezione tecnica nel campo dell’animazione tridimensionale, la Pixar sceglie ora di evitare volutamente il realismo del tratto, di non renderizzare tutte le gocce di uno schizzo d’acqua, ma di avere la linea (che restituisce l’insieme e rinuncia al dettaglio del singolo punto che la costituisce) come elemento fondamentale del disegno. Raggiungere questo livello di stilizzazione richiede però di mettere in discussione tutto quello che lo studio ha fatto negli ultimi decenni, lavorando sempre nella direzione opposta, cioè quella del fotorealismo, sviluppando complicatissimi strumenti digitali basati sulla simulazione degli effetti fisici e sulla raccolta di dati. La produzione di Luca ha quindi permesso al team Pixar di pensare in maniera diversa rispetto al passato, di lasciarsi maggiormente sedurre da influenze straniere (dallo stile di animazione del primo Miyazaki, quello di Conan il ragazzo del futuro, e persino da quell’immagine del mondo fluttuante restituita dalla stampa Ukiyo-e) e di creare una serie di strumenti da poter utilizzare anche in futuro per pianificare un percorso nuovo e differente per lo studio di animazione dopo l’addio di Lasseter.
È per questo che Jon Reisch, supervisore agli effetti speciali, ha ad esempio messo a frutto la sua esperienza come chitarrista per sviluppare un applicativo molto simile ad un equalizzatore sonoro per modificare e controllare l’aspetto del mare, aumentando e diminuendo l’ampiezza delle singole onde come si aumenta e si riduce l’ampiezza delle frequenze audio. Questo ha permesso di regolare liberamente il dettaglio delle immagini e di utilizzare un software non più esclusivamente dipendente dai dati oceanografici e dalle rilevazioni effettuate nel mondo reale. Quello di Casarosa è un film poco interessato alla complessità dei meccanismi narrativi (o alla loro maniacale coerenza, già ampiamente abbandonata con Soul e Toy Story 4) e invece mosso dalla voglia di emozionare lo spettatore attraverso lo stile visivo, sfruttando un tipo di disegno più autoriale e meno fotorealistico, più tradizionale e meno determinato dalla necessità di sperimentare nuove tecnologie (e di studiare tutte le possibili applicazioni delle stesse). Il naturale sbocco delle sperimentazioni grafiche della serie SPARKSHORTS (disponibile su Disney+), che avevano mostrato nuove possibilità di animazione (anche bidimensionale) basate sulla progressiva sottrazione di strumenti (ad esempio limitando la disponibilità dei colori) invece che sulla quasi infinita disponibilità degli stessi.
Accumulando oggetti del mondo degli umani di cui capiscono inizialmente pochissimo (esattamente come ne La Sirenetta), i due protagonisti di Luca manifestano fin da subito il loro desiderio di vivere come gli abitanti della città a cui non hanno mai osato avvicinarsi da soli. L’opera di Enrico Casarosa comunica questa inspiegabile gioia di essere ragazzi e ragazze in carne ed ossa attraverso uno stile che tradisce in ogni momento il tocco umano, la sua imperfezione e il suo calore. Se nelle sequenze di nuoto subacqueo, quando i personaggi tornano nella loro originaria forma animale, lavora il motore grafico Houdini, precedentemente utilizzato in film carichi di effetti speciali complessi come Toy Story 4, permettendo di gestire milioni e milioni di piccolissimi elementi in fase di rendering, appena i due ragazzi emergono in superficie, tutto si fa meno realistico e improvvisamente più allegorico: viene meno la necessità di descrivere minuziosamente ed emerge il desiderio di evocazione. Se la luce che attraversa l’acqua tende ad uniformare il fondale marino, a semplificarne l’aspetto, limitando il campo visivo dei protagonisti, quando questi emergono in superficie possono finalmente conquistare un orizzonte più ampio.
Il team Pixar ha creato nuove applicazioni digitali per consentire l’implementazione di caratteristiche tipiche dell’animazione 2D (ad esempio le bocche dei personaggi non si muovono con il resto del loro viso), preferendo stavolta le silhouette alle figure. Dopo che persino Spider-Man: Un nuovo universo di Phil Lord e Chris Miller aveva fatto ricorso a tecniche di animazione tradizionali per rimarcare la sua origine fumettistica (tecniche perfezionate nel successivo The Mitchells vs. the Machines, tra acquerelli e scarabocchi a matita) e dopo l’incredibile riconoscimento ottenuto da un film come Wolfwalkers (il cui stile grafico era ispirato alla stampa con blocchi di legno di epoca cromwelliana), i tempi sono maturi anche per la Pixar per muoversi con fiducia nella direzione di una sempre maggiore stilizzazione. Nelle prime fasi dell’animazione al computer si cercava il realismo perché era qualcosa che l’animazione 2D non avrebbe mai potuto raggiungere. Adesso che quel realismo è stato ampiamente ottenuto, toccando risultati forse insperati, film come Luca indicano la giusta direzione per il futuro.
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