Nel suo inesorabile e progressivo processo di stilizzazione del mondo (e, in questo caso, anche di quello che c’è al di là), Wes Anderson, come Brâncuși e il suo uccello nello spazio, ha raggiunto un livello di astrazione tale per cui è sempre più difficile, per lo spettatore, risalire all’idea rappresentativa originale. Pur modellato secondo concetti di “bellezza e simmetria” (quelli rinvenuti dai giudici che decretarono, in un’aula di tribunale, che quella dello scultore romeno fosse effettivamente un’opera d’arte e non un utensile, come sostenuto dal funzionario doganale che l’aveva denunciata come tale) il cinema di Wes Anderson è il miglior testimone di se stesso, splende come un gioiello - per citare nuovamente Brâncuși - e tanto basta per definire ogni suo film un’opera d’arte meritevole di tale status. Non è quindi un caso se La Trama Fenicia rinegozi ancora una volta con il pubblico i termini di ciò che si può definire un bel film, o più nello specifico un bel film di Wes Anderson, e faccia della sua stessa volontà di negoziazione il tema centrale della trama. Come già accadeva in Asteroid City, il regista pare voler chiarire innanzitutto a se stesso cosa è diventato il suo cinema, nella convinzione che solo attraverso l’attività negoziale si riesca a saggiare meglio la consistenza della posizione su cui si sta negoziando. Il protagonista del film, Zsa-zsa Korda, rinegozia costantemente la sua esistenza sia sul piano metafisico (quello della vita e della morte) sia in un’articolazione più terrena, venale, che è appunto quella del mercanteggiare, ovvero sondare poco a poco l’altrui obiettivo, svelando così anche il proprio, fino a raggiungere un punto di equilibrio in cui si dichiara che un dato prezzo è il più alto che si vuole pagare (e si apprende, contestualmente, che un dato prezzo è il più basso a cui l’altro intende vendere). Una delle regole base di ogni negoziato sta, logicamente, nella necessità di avere a disposizione delle opzioni che possano condurre a vantaggi vicendevoli per superare lo stallo che inevitabilmente si creerà tra i due rivali. Ma essere cineasti non significa forse, in egual misura, essere in grado di immaginare un ventaglio di possibilità in modo da poterne scegliere una o più d’una come soluzione a un problema, in base a dei vincoli che ci si impone e a degli obiettivi che ci si prefigge? Ecco, il regista lavora di immaginazione, esplora alternative, rende esplicito l’implicito, trasforma in pratica artistica (come lo è del resto il negoziato in senso più generale) ciò che altrimenti sarebbe una semplice transazione.

Come si usa fare nel metodo scientifico, Wes Anderson da tempo ricorre a degli esperimenti mentali, a delle duplicazioni quasi perfette di ciò che ha già fatto in passato, dove l’elemento di differenza esercita una pressione sul concetto che si sta studiando, permettendo di saggiarne la tenuta. Sono quelle che Edmund Husserl chiamerebbe “variazioni eidetiche”, in cui si modifica un sistema codificato per riuscire a distinguere meglio ciò che gli è essenziale da ciò che gli è accidentale. In un negoziato maturo, quindi, si deve anche spesso negoziare con se stessi, con il dato di fatto esogeno che condiziona la negoziazione in atto. Nel cinema, questo fattore esogeno è dato dalla contingenza produttiva, materiale, si rivela nel passaggio dalla sceneggiatura alla messa in scena. È in quel momento che un piano apparentemente perfetto, studiato in tutti i suoi più piccoli dettagli, proprio come quello iniziale di Zsa-zsa Korda, può fallire, ridimensionarsi, scontrarsi con delle evidenze che costringono a cambiare repentinamente il proprio progetto iniziale. Insomma, ogni negoziato è fallibile. Il che significa che si deve compiere il doloroso passo di accettare il fallimento negoziale, decidere di cambiare idea, ovvero passare alla mossa successiva in tempi rapidi. Ed è forse proprio in questo passaggio dalla teoria alla prassi, nel deragliamento dei propri calcoli, che si ritrova un’emotività inizialmente esclusa dallo “schema”, esattamente come avviene al protagonista del film e a sua figlia. Inizialmente distanti, riunitisi per una pura formalità, finiranno anch’essi per rinegoziare la propria relazione famigliare, ognuno disposto a cedere qualcosa all’altro delle proprie convinzioni e del proprio modo di intendere la vita. Così Wes Anderson, in un film pure spesso inafferrabile, teorico fino al paradosso matematico (o filosofico, se si pensa a quello della Nave di Teseo, che interrogava sulla questione dell’effettiva persistenza di un’identità data per sempre a fronte di una sua costante modificazione nel tempo), ritrova la felicità nel filmare principalmente pochi attori (soprattutto Benicio del Toro, Mia Threapleton, Michael Cera), allontanandosi dalle derive pletoriche - industriali - della sua filmografia più recente e restituendo alle azioni dei suoi personaggi delle motivazioni persino sentimentali.