Forse la cosa più emblematica detta su Jules e Jim proviene dalla bocca del suo stesso regista. Alla domanda di John Frankenheimer, che gli chiedeva come fosse stato possibile ottenere quella nebbia così densa che avvolge alcune scene del film, François Truffaut rispose: “Era già lì quando ci siamo recati sul luogo per girare”. E aggiunse: “Non si tratta di fortuna, perché di cose così ne capitano tantissime ed è per questo che per fare un film bisogna uscire, andare per strada e cogliere gli elementi che ci si trova davanti”. Il manifesto di un cinema girato prevalentemente in esterni, che rifiuta il set e il teatro di posa, in cui gli attori solo in parte concordano le battute con chi le scrive ma hanno anche la possibilità di improvvisare, nel quale il regista può modificare le scene all’ultimo minuto, nel momento in cui arriva sul luogo in cui deve girare.

Il capolavoro di Truffaut, che torna in questi giorni in sala in versione restaurata, è pervaso dalla grazia di un’epoca “in cui i blousons noirs erano blousons blancs”, per usare le parole di Jean Cocteau. Il regista esalta la nostalgia come carattere contingente del suo cinema, sfruttando la capacità dell’arte di preservare ogni cosa, persino ciò che si è perso (che è quello che farà Jim alla fine del film con un disegno). Con la sua solita ironia, Truffaut rifiutava l’aggettivo “moderno” riferito al suo cinema: “Non sono per nulla moderno, anzi, sono convinto che in passato il cinema fosse più vibrante e spontaneo, perciò la mia attività da regista tende a recuperare un segreto ormai perso e non verso un futuro ancora da definire".

Ambivalenza e dissociazione

Il capolavoro del 1962 mette in scena la presa di coscienza di una donna che passa per l’ambivalenza sessuale: se Miss Julie veniva costretta ad indossare vestiti maschili da sua madre, Catherine decide volontariamente di travestirsi da Thomas. Come sottolineato da Raymond Durgnat, il tema della “bisessualità”, ma sarebbe meglio dire dello scambio di genere, ricorre nel film in maniera sotterranea (Joanne Moreau, ad esempio, nella sua versione de Le Tourbillon canta i versi scritti per voce maschile). Quella di Catherine è una morale meccanica basata su “calcoli etici”, che si trasforma in dispotismo amoroso e diviene parodia di una giustizia retributiva che utilizza l’aritmetica (anziché la proporzione geometrica di quella distributiva) per riparare ai danni provocati o subiti. Davanti a questa figura femminile, così forte da contenere in sé entrambi i sessi, il maschio subisce un processo di dissociazione (la scissione è uno dei temi che maggiormente accomuna i lavori di Truffaut e che raggiunge l’apice massimo in Fahrenheit 451 (1966), dove ogni elemento del film sembra essere diviso in due: due Montags, due donne, due libri, due infermieri). L’uomo in Jules e Jim ha due possibilità: essere spettatore passivo (Jules) della sua vita o partecipare ad essa anche a rischio di dissolversi (Jim). Truffaut comunica anche visivamente, come scriveva Ludovic Cortade, “l’esitazione tra il desiderio del movimento e la nostalgia dell’immobilità”. In Jules e Jim, infatti, ricorrono alcuni freeze-frame che immobilizzano l’immagine e interrompono momentaneamente il flusso, indugiando sulle espressioni gioiose di Catherine (che vengono “fermate” per poter diventare un ricordo da rimpiangere, da riconquistare). Questa immobilizzazione fotografica della ragazza permette allo spettatore di fissare la sua immagine sugli occhi e nella mente, di ricondurla ad una dimensione di immutabilità e reagire così ai suoi continui cambiamenti. Similmente fanno i suoi due amanti, che la identificano con una statua in grado di risolvere e sintetizzare la sua natura sfuggente e cangiante. Catherine, come la Hedda Gabler di Ibsen, è un corpo in perpetuo movimento, che àncora il film in un presente che annulla ciò che c’è stato prima e ciò che verrà dopo: quella mostrata in Jules e Jim è, proprio per il suo radicamento nel presente, una vita “improvvisata”, che si fa mentre si svolge. Eppure questa disillusione giovanile, questo desiderio dei protagonisti di essere “pionieri” di un nuovo amore, è destinata a rimanere, come in un dramma di Ingmar Bergman, disattesa (l’influenza del regista svedese emerge chiara nella scena della stazione, ripresa quasi fedelmente da quella di Verso la gioia). Truffaut conduce lo spettatore dall’immaginazione libera della prima metà, in cui le regole cinematografiche sono più blande, attraverso un progressivo imbrigliamento dei personaggi e del mezzo filmico.

Jules e Jim è attraversato da una “tensione geometrica” per cui il regista abbraccia idealmente in un cerchio tracciato dalla macchina da presa la narrazione triangolare che coinvolge i protagonisti. La spigolosità euclidea della narrazione viene contrastata dagli ampi movimenti di macchina, dalle traiettorie circolari che i personaggi disegnano su schermo, dalle curve degli oggetti in scena (i tavoli del café che Jim vorrebbe comprare). Una figura nel film sintetizza questa tensione geometrica ed è la clessidra che sopravvive alla guerra, che misura l’esistenza dei personaggi e scandisce la storia che li riguarda.

La presenza di Picasso

Sui muri dei film di Truffaut è sempre possibile osservare una quantità enorme di fotografie, poster, appunti e dipinti che tracciano linee parallele a quella della narrazione principale. Jules e Jim è forse l’esempio più emblematico di questa tendenza: nel film infatti compaiono ben tredici quadri di Pablo Picasso. L’ordine di apparizione delle opere corrisponde (con qualche eccezione) al periodo di realizzazione, da L’Etreinte dans la mansarde del 1900 a Mère et enfant del 1922. Il film quindi percorre la carriera di Picasso dai periodi Blu e Rosa a quello del Cubismo, finendo negli anni “neoclassici” dei primi ’20. La narrazione di Jules e Jim copre circa due decenni, cominciando nel 1912 e terminando poco dopo il maggio 1933, con il rogo nazista dei libri. Perciò i quadri di Picasso svolgono un ruolo nella diegèsi, ponendosi come un definito riferimento temporale in una narrazione i cui personaggi sembrano essere invece immuni al passaggio degli anni. Se non fosse per i baffi di Jim (che si rade dopo la Prima Guerra Mondiale) o per gli occhiali di Catherine, i protagonisti sembrerebbero eternamente uguali a loro stessi. Il tempo non li attraversa, ma si muove attorno a loro (e si rivela allo spettatore nei vestiti, nelle macchine, nel materiale d’archivio che Truffaut usa per mostrare Parigi e la guerra).

Ma la successione dei quadri nel film accompagna anche un mutamento nei personaggi. All’inizio della storia, nell’appartamento di Jules e Thérèse, compare L’Etreinte dans la mansarde, mentre nell’appartamento di Jim e Gilberte è appeso il quadro Famille d’acrobates avec singe. I due quadri spiegano le differenze fra i due personaggi: se Jules aspira alla compagnia di una sola donna, Jim, ci viene detto, apprezza la compagnia di più donne, assumendo nelle relazioni amorose un atteggiamento da “acrobata” e da “saltimbanco”. Quel quadro, più avanti nel film, verrà sostituito da quello di Pierrot senza maschera nel momento in cui Jim tornerà da Gilberte con una nuova e diversa idea sulla loro relazione e ancora successivamente dal quadro dell’Arlecchino seduto quando Jim tornerà un’altra volta da lei dopo il rifiuto di Catherine. Quest’ultima, come già scritto, viene invece identificata dagli stessi Jules e Jim con l’immagine di un’antica scultura, archetipo di ciò che i francesi chiamano “l’éternel féminin”. Così i vari quadri di Picasso associati alla sua figura si relazionano alla fantasia che i due amanti hanno su di lei. I dipinti che la definiscono non sono che la rappresentazione sempre diversa dell’idealizzazione maschile della donna: la giovane ragazza vergine (Jeune Fille avec chien), la donna sessualmente disponibile (L’Italienne), l’amante ed infine la madre. Nella scena in cui Catherine annuncia telefonicamente a Jim l’imminente matrimonio con Jules, compare il quadro Femme nue assise, raffigurante una modella professionista di nome Madeleine che era amante del pittore e in attesa di un bambino da lui. Così, verso la fine del film, nella nuova residenza di Jules e Catherine, è possibile osservare il dipinto neoclassico Mère et enfant quando Catherine piange per il figlio che lei e Jim non sono mai riusciti ad avere.

Musica, immagini e voice-over

L’omonimo romanzo autobiografico di Henri-Pierre Roché da cui il film è tratto non fu solo fondamentale per l’idea del lungometraggio, ma addirittura determinante per lo stesso Truffaut nel comprendere (e accettare) definitivamente la sua vocazione di regista. Dello scrittore francese, Truffaut ammirava soprattutto la sua capacità di “sottrazione”. Roché infatti era solito ridurre drasticamente le prime bozze delle sue opere, ridimensionando una pagina di testo sino a poche righe. La voice over di Jules e Jim segue quasi parola per parola il libro originale, ma le immagini non si inseriscono negli spazi lasciati aperti dalla laconicità del suo testo, bensì conducono un discorso a sé, si prendono la libertà di parlare d’altro. Immagini, musica e voice over si muovono in maniera indipendente, come in una “fuga” musicale in cui gli elementi tematici si sviluppano in una polifonia di molteplici contrappunti e tonalità (non a caso Mike Leigh arrivò a definire il film “a piece of music”). Quella di Truffaut è una forma di narrazione estremamente diretta che però non sfrutta quasi mai il dialogo diretto. Se è vero, come scriveva Benjamin Tilghman, che per alcuni artisti lo “spazio pittorico” coincide con uno “spazio morale”, così per Truffaut lo spazio filmico rappresenta plasticamente la dinamicità morale dei suoi protagonisti.

Il regista Arnaud Desplechin sosteneva che la scena dei titoli di testa di Jules e Jim da sola avesse influenzato “un’intera generazione di cineasti americani” più di quanto non avesse fatto l’intera filmografia di Godard. “Come è possibile raggiungere quelle punte di lirismo con una sequenza montata in maniera così frammentata?”, si chiedeva Desplechin. Eppure in quei pochi secondi di film Truffaut riesce a costruire la narrazione di un’amicizia intera utilizzando quasi esclusivamente il montaggio (il “costruttivismo” di Truffaut segue un montaggio classicamente inserito nella lezione di Eisenstein, ma la “collisione” nei suoi film non avviene tra le immagini bensì tra le idee). E Desplechin aveva ragione ad indicare quei primi minuti come fondamentali per un certo tipo di cinema americano. Lo stesso Martin Scorsese indica spesso proprio l’inizio di Jules e Jim, in cui musica e voice over amplificano le immagini pur non stringendo un rapporto diretto con esse, come la pietra angolare su cui poggiano alcuni dei suoi film più celebri come Casinò o The Wolf of Wall Street. Il movimento degli attori nella scena, la composizione delle inquadrature e il cambio repentino dei luoghi suggerivano possibilità infinite, una “libertà” di maneggiare il mezzo filmico per sorprendere lo spettatore rendendolo incapace di prevedere cosa sarebbe venuto dopo. È quella la scena che fece domandare a Scorsese: “Come potrebbe essere un film girato interamente in quella maniera?”. La risposta arrivò poi nel 1990 con Quei bravi ragazzi. Come in Jules e Jim, la voce fuori campo utilizzata da Scorsese non cercava di spiegare didascalicamente ciò che le immagini stavano mostrando, ma piuttosto le parole venivano utilizzate per enfatizzare la maniera i cui personaggi intendevano vivere la loro esistenza.