Il tempo è cruciale a tanti livelli diversi in Indiana Jones e il Quadrante del Destino, quinta avventura di Harrison Ford nei panni dell’archeologo più famoso del cinema, stavolta in lotta contro sé stesso e gli anni che lo separano dai primi tre film, in un continuo ee infinito inseguimento sempre scandito dal ticchettio delle lancette (quelle di una bomba o, più banalmente, quelle di un orologio). Dopo il tentativo maldestro di condurre la saga nel futuro e nella fantascienza con Il Regno del Teschio di Cristallo, stavolta Indiana Jones torna alle origini del franchise con una storia ambientata negli anni ‘60 (con un prologo negli anni ‘40) che riguarda, come si conviene, la ricerca di un oggetto antico creduto perduto, uno dotato di poteri non magici (né religiosi) ma matematici, una missione che ha a che vedere con il tempo, con i suoi paradossi e le sue contraddizioni. Non è un caso che l’Indiana Jones che vediamo all’inizio del film sia lo stesso di quarantadue anni fa. Letteralmente. Il processo di ringiovanimento digitale che ha permesso di riparacadutare Indy tra i nazisti non consiste però nella rielaborazione in chiave giovanile del volto di Harrison Ford oggi (come si è fatto con De Niro e Pacino in The Irishman) ma nel pastiche del suo volto/corpo, preso direttamente dai vecchi film e inserito nelle scene girate oggi. Il risultato, pur non sempre convincente dal punto di vista visivo, è affascinante, rendendo evidente e plasticamente riconoscibile l’ibridazione, quindi l’impossibilità di lasciar andare il passato cinematografico del protagonista, sempre proiettato sul suo volto, come un fantasma che infesta il presente.

Ad eccezione di una bellissima inquadratura del petto nudo dell’ottuagenario strappato al suo torpore dal Magical Mystery Tour dei Beatles, la fisicità inevitabilmente compromessa di Indiana Jones non è un soggetto centrale del film, o comunque non uno di quelli sufficientemente presi in considerazione nella messa in scena. Il Quadrante del Destino è un film “stanco”, più che un film “sulla fatica” di stare al passo della propria leggenda. Un action-adventure di stampo classico che avanza lineare, per 2h22, con la sua nostalgia calcolata a tavolino. Un quinto capitolo a immagine e somiglianza della nuova comprimaria, Phoebe Waller-Bridge, che pensa che le antichità (come la stessa saga di Indiana Jones) non debbano trovare spazio in un museo, diventare preziosi oggetti di studio e di analisi, ma continuamente rimessi in circolo sul mercato, consegnati allo spietato regno del commercio.

In assenza di Steven Spielberg, alla regia è stato chiamato uno dei più grandi “antiquari” del cinema contemporaneo: James Mangold, professionista nel lucidare e rimettere a nuovo antiche reliquie per consegnarle alla modernità (Copland, Logan, Le Mans 66, operazioni vintage che si collocavano fuori dal tempo e dal gusto presente). La sfida è di quelle enormi: come in Logan aveva dimostrato di avere una chiara idea del tempo e del cinema, di sapere come trattare l’eroismo nella sua fase terminale e di saper manipolare versioni giovani e anziane dello stesso personaggio, adesso gli viene chiesto di prelevare qualcosa dal passato, cioè un classico film di Indiana Jones, e trasportarlo nella contemporaneità, cercando di fare in modo che vada ancora bene, che funzioni e abbia l’effetto di una volta. Una straniante operazione di archeologia cinematografica che però non ha mai la sfrontatezza di contraddire le regole “industriali” che ne impongono l’esistenza (come invece fatto da Matrix Resurrections). Il viaggio nel tempo, in Indiana Jones e il Quadrante del Destino, è quindi forse più una metafora inconscia, dal momento che è il film stesso a voler fare un salto nel passato, per coronare nel presente la storia d’amore del pubblico con uno dei ruoli più iconici del cinema contemporaneo. In astratto, almeno, ci riesce, fino ad un finale toccante quanto strampalato (ancora più che nel precedente capitolo), ma solo per confermare che, pur quando si è in grado di rimettere in scena l’ethos, ritrovare il brivido originale è molto più difficile.

L’unico calore del film è quello emanato da Harrison Ford, incredibilmente ancora a suo agio nel ruolo che più di altri ha segnato l’immagine che gli spettatori hanno di lui. Non abbocca all’amo della nostalgia e individua l’esatta frattura emotiva che Indiana Jones dovrebbe provare in quel momento della sua vita che viene raccontato su schermo. Ford è un cialtrone e un incantatore, offre allo spettatore vulnerabilità e forza, pazienza e temperamento, la volontà di giocare con il suo status da divo e la capacità di dare al pubblico ciò che richiede per essere rassicurato. Infonde un po’ di umanità in una sceneggiatura altrimenti meccanica, che si sviluppa per livelli e per cut-scenes tenute insieme da poco altro. La sua performance, vissuta fino in fondo, getta nel caos il finale de Il Quadrante del Destino, essendo molto meglio del film stesso. Ed è così che quando Mangold farà il prevedibile salto verso il fantastico, negherà il destino che Ford, da solo, stava costruendo per Indiana Jones. Una chiosa programmaticamente struggente resa davvero tale solo dalla pura volontà del suo attore protagonista, che sembra avere un’idea diversa di ciò che il film doveva essere rispetto a tutti gli altri.