Prosegue la retrospettiva di Stranger Than Cinema dedicata ai migliori lavori cinematografici del 2017. Dopo i cinque film più belli, adesso è il turno dei migliori titoli di animazione arrivati in sala (o direct-to-video) nel corso dell’anno che si è appena concluso. Vale naturalmente la stessa regola dello scorso articolo: la classifica, che non è realmente tale in quanto non c’è un ordine di gradimento, è determinata da gusto e sensibilità personali.
La Tartaruga Rossa - Michaël Dudok de Wit
Il tema della simbiosi con la natura, della immedesimazione ancestrale con gli elementi di un mondo ancora non contaminato, è da sempre caro al mondo della animazione giapponese, data la soffocante società tecnologica che guida il mondo del Sol Levante ed i fantasmi di tragedie come quella di Fukushima che inseguono gli abitanti di un Paese pieno di contraddizioni. Forse è proprio per questa ragione che il più grande e conosciuto studio di animazione giapponese ha deciso di produrre questo cartone animato in gran parte europeo. Lo scenario è lo sconfinato oceano di Ponyo, ma la concezione della natura che emerge da La Tartaruga Rossa non è quella ampiamente abusata di Rousseau e somiglia invece a quella più feroce di Werner Herzog: la natura dà, la natura toglie. Ma questa produzione Ghibli è un’opera che vive di piccole scene e brevi momenti: dalle tartarughine che cercano di entrare in acqua affrontando le onde che le portano nuovamente a riva, al granchio che, scampato alla curiosità del bambino, viene fatalmente raggiunto da un gabbiano affamato. Questa curiosità verso il minuscolo, per la natura nella sua totalità, dalla vastità del mare al ragno più insignificante, è certamente il fascino maggiore di una pellicola così complicata. Il dipinto di una natura imprevedibile, in grado di consolarti ed aiutarti anche quando non la assecondi (la comparsa magica della donna dal cadavere della tartaruga uccisa per frustrazione) ma anche di “punirti” senza apparente spiegazione (lo tsunami che travolge la foresta). Quella tartaruga che come "lo squalo" di Spielberg si avvicinava in silenzio per aggredire il malcapitato naufrago si rivelerà la salvezza dello stesso protagonista, che riuscirà a trovare la propria completezza nella più totale povertà e mancanza. Una sottrazione che si fa ricchezza, un tormento che si fa amore.
Coco - Lee Unkrich, Adrian Molina
Coco è sicuramente uno dei lavori Disney più complessi e maturi di sempre. Nel processo di elaborazione degli elementi folcloristici e popolari che fanno da sfondo a questa avventura, il Messico non è mostrato come un luogo magico ed ammaliante, ma come un Paese fuori dal tempo. I messicani (quelli vivi), ascoltano canzoni vecchie di decine di anni e sono appassionati di vetusti film in bianco e nero, mentre la città che ospita i defunti è disegnata come una metropoli fantascientifica e persino i suoi abitanti passano il “dia de muertos” tra party esclusivi e dj set. Ma nonostante il regno dei morti si presenti in maniera decisamente più moderna del Messico dei vivi, con i suoi edifici che si sviluppano in verticale ed i tortuosi collegamenti ferroviari sospesi in aria, esso non è esente dai problemi sociali che sono invece propri del nostro mondo tangibile: la divisione tra aldilà e regno dei viventi è segnata da una sorta di ufficio immigrazione che non lascia passare nessuno che non abbia una propria foto esposta nella “ofrenda” di famiglia ed i diseredati vivono in baraccopoli in periferia nella dolorosa attesa di scomparire per sempre. Perché l’evento davvero tragico in Coco non è tanto la morte del corpo, che è invece un incidente che viene mostrato con fare conciliante se non addirittura derisorio (lo stesso Ernesto de la Cruz muore schiacciato da un grosso campanile), quanto la “scomparsa definitiva”, quella che avviene quando anche l’ultimo parente comincia a dimenticarti.
Seoul Station - Yeun Sang-Ho
La cosa che davvero stupisce di Seoul Station è come questo, pur essendo animato, funzioni meglio come film di zombie se paragonato a Train To Busan (ovvero il suo seguito in live-action). Perché se quest’ultimo voleva essere una operazione dal respiro internazionale, che spingeva il pedale sull’azione e relegava la sua cornice politica, che pure era presente, a semplice contorno, questo prequel animato di Yeon Sang-ho prosegue invece il feroce percorso di distruzione sovversiva del cineasta coreano, che ha come oggetto ogni istituzione riconoscibile come tale: dalla Chiesa (The Fake) alla scuola (The King of Pigs). Perciò se Train To Busan sembrava un film d’azione realizzato da chi non conosce ed ama il genere, derivativo e con pochissime idee davvero proprie, questo Seoul Station dimostra definitivamente come il territorio d’elezione di Yeon Sang-ho sia quello del cinema d’animazione. Con ritmi mai frenetici e prendendosi il tempo necessario per descrivere situazioni e personaggi, il prequel di Train To Busan recupera gli insegnamenti di Romero (ed in alcuni frangenti le trovate narrative di Carpenter, come nelle scene di assedio) e si pone come un manifesto contro le forze dell’ordine e l’esercito, ovvero corpi dello Stato inadeguati a tenere testa alle emergenze che dovrebbero affrontare e spesso gratuitamente violenti e meschini contro chi è più debole e meno protetto di loro. L’epidemia prenderà il via proprio da quelle fasce di popolazione indifese ed abbandonate, per poi espandersi alle altre classi sociali: perché la povertà non è mai questione di pochi ma qualcosa che sul lungo termine influisce sul benessere della collettività.
Gatta Cenerentola - Cappiello, Sansone, Guarnieri, Rak
In un Paese in cui si fa pochissima animazione e distopia al cinema neanche a parlarne, questo strepitoso anime (perché di quello si tratta) fa entrambe le cose nella migliore maniera possibile. È pregno di un animismo che pensavamo appartenere solo alla sensibilità nipponica e si srotola come un cupo noir (un genere che conosciamo bene) dal gusto alla De Palma. Il risultato finale è però senza dubbio italiano nella maniera in cui la storia viene narrata e messa in scena, dall’utilizzo del dialetto a quello della musica come elemento diegetico. Un lavoro coraggioso che non vuole assomigliare a nulla e che non nasconde la propria origine geografica. Anzi, la rimarca per farne un vanto e non la tratta come qualcosa da camuffare.
Loving Vincent - Dorota Kobiela, Hugh Welchman
Se c’è una cosa sorprendente di Loving Vincent è che il modo in cui la sua storia viene narrata è persino più affascinante del suo impianto visivo (basato sul rotoscope reso celebre da Bakshi e sdoganato nel mainstream da Linklater). Non è per nulla scontato che un lavoro concepito sulle immagini sia egualmente efficace anche nel racconto e lo è ancora meno se il pretesto usato per inscenare la vita di Van Gogh è quello di una indagine sul suo decesso. Un vero e proprio giallo che si muove seguendo pedissequamente le regole del genere investigativo. Persino il protagonista aderisce alla classica figura del detective cinematografico che comincia ad indagare per dovere per poi fare del suo “caso” una faccenda personale. Eppure i colori accesi che animano la storia di Van Gogh tramandata per bocca dei suoi compaesani (viva e pulsante come la sua arte proprio perché alimentata dalle meschinità e dalle maldicenze di quella piccola comunità di esseri umani) sono smorzati dai fiacchi e superflui flashback che invece svolgono il ruolo agiografico di mostrare la sua parabola di tormento-martirio-morte. Questo però non toglie che Loving Vincent sia una delle maggiori sorprese di questo 2017, proprio per una originalità insperata nel modo di narrare che lo salva dall’essere un mero (seppur affascinante) esercizio di stile.
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