È da ormai dieci anni (dal sottovalutassimo The Counselor) che Ridley Scott di tanto in tanto - ma sempre più frequentemente con il passare del tempo - si concede il privilegio di abbandonare le atmosfere che lo hanno reso famoso, con i suoi kolossal e i suoi film di fantascienza, per avventurarsi invece nel campo dello stravagante, del camp e persino del trash. Ci aveva provato in maniera più esplicita con House of Gucci, ma indizi di questa sua passione per il kitsch, coltivata in realtà fin da giovanissimo con i suoi lavori pubblicitari, facevano capolino anche nel precedente - e a suo modo farsesco - Napoleon. Non deve quindi stupire troppo se il sequel de Il Gladiatore non è altro che una versione decisamente più strafottente e canzonatoria del film originale, in un’operazione che non è molto distante da quella già tentata da Scott con Hannibal nel 2001, che si poneva rispetto a Il silenzio degli Innocenti di Jonathan Demme in una relazione di esasperazione e distorsione simile a quella che tiene insieme adesso i due suoi film dedicati all’antica Roma. In quello strano ed esagerato sequel, Mason Verger (Gary Oldman), una combinazione tra il Fantasma dell’Opera e un villain di James Bond, veniva convinto da Lecter (Anthony Hopkins) a tagliarsi la faccia e a darla in pasto ai suoi cani, canticchiando allegramente: “That’s entertainment!”. Ecco, tutto ciò che viene orchestrato su schermo in questo sequel de Il Gladiatore, comprese le violentissime e sanguinose battaglie, non ha altro scopo se non quello citato da Verger. Non esiste alcuna ambizione mitopoietica, nessuna velleità di costruzione epica. Il Colosseo, l’arena in cui si volge l’azione, diventa un proscenio sul quale Scott inventa le battaglie più irragionevoli, non solo dal punto di vista della coerenza storica, e sguinzaglia il suo bestiario digitale, giocando nell’illuminare frontalmente le diverse creature che entrano in scena, così da rendere evidente allo spettatore la loro natura posticcia. Lo spettacolo inteso come unico linguaggio e come campo sul quale esercitare il proprio potere. La fotografia stavolta è molto più simile a quella di Exodus - altro esempio camp nella filmografia di Scott - che a quella del film originale, come si evince dai brevi flashback che ci riconducono al passato desaturato di Massimo Decimo Meridio. E non è un caso che tornino alcuni elementi (il gusto grandguignolesco di The Counselor, ad esempio) provenienti da quella sua schiera di film meno seriosi, agitati da uno spirito buffonesco, grottesco, e compiaciuti nella loro spiccata teatralità, espressa innanzitutto attraverso abbigliamenti appariscenti e colori sgargianti. 

Stavolta anche le scelte di cast sembrano strizzare l’occhio a quelle possibili letture omoerotiche che il primo film - ma più in generale tutti quelli fondati sul machismo ostentato - aveva generato. Paul Mescal, protagonista al posto di Russell Crowe, è il giovane divo di Normal People, divenuto famoso prima con un ruolo in cui si liberava della corazza da maschio etero cis che non deve chiedere mai, che finalmente piangeva, chiedeva aiuto, ammetteva di non sapere cosa fare della sua vita, e poi consacrato dalla prova romantica e queer in All of Us Strangers. Il pubblico, inevitabilmente, finirà per sovrapporre al suo Lucius quell’immagine lì, creando una strana interferenza tra la mascolinità granitica imposta dal ruolo di combattente e quel suo volto, quel suo fisico, così evocativi invece di un immaginario completamente differente. Contraddizione che il film pare voler evidenziare, sia attraverso altri personaggi che suggeriscono queerness (i due imperatori androgini e gemelli, su tutti, ma in qualche modo anche quello di Denzel Washington negli scambi che ha con Tim McInnerny, e il cameo quasi drag di Matt Lucas) sia con altre scelte di cast ugualmente controintuitive, come quella di Pedro Pascal, anche lui diventato negli ultimi anni simbolo di una moderna e più sensibile mascolinità al cinema e già protagonista di un altro tentativo di ribaltamento degli stereotipi di genere con il ruolo di cowboy omosessuale in Strange Way of Life di Pedro Almodóvar. Se Il Gladiatore, all’epoca della sua uscita, fu attaccato per la sua approssimazione, per il suo totale disinteresse rispetto a un minimo sindacale di serietà nella ricostruzione storica, osteggiato in quanto simbolo dell’arroganza del capitale produttivo, questa sua rivisitazione più consapevolmente cialtronesca si rivela stranamente sincera nella sua sfacciataggine, lavorando su due palcoscenici, quello dello schermo cinematografico e quello dell’arena romana, e sul compiacimento di due sguardi, ovvero quello del pubblico in sala e quello sugli spalti dell’anfiteatro, spesso avidamente coincidenti rispetto alla voglia di godere di esibizioni sempre più assurde e pirotecniche. Il sudore luccica sulla superficie dei bicipiti e sugli addominali tesissimi nei tanti combattimenti a torso nudo (“intricate rituals which allow you to touch the skin of other men”, per citare l’opera di Barbara Kruger) che si svolgono in uno spazio dominato da uomini ma in cui soffia una leggera brezza di ambiguità sessuale, tra occhiate di intesa molto lunghe e sfioramenti che sembrano suggerire trascorsi. Tutto queste rende Il Gladiatore 2 un potenziale oggetto di studio nel solco del lavoro fatto da Vito Russo a suo tempo con il suo The Celluloid Closet. Un film che è già un classico “queer-in-our-minds”.