Dopo la trilogia bressoniana sulla redenzione composta da First Reformed, The Card Counter e Master Gardener, stavolta Paul Schrader sembra voler abbandonare qualsiasi tipo di misticismo per rendere nuovamente “terreno” il suo cinema. Lo fa - come sempre avviene nelle sue sceneggiature - con la storia di un uomo afflitto da un senso di colpa che non gli consente più di continuare a vivere (o, in questo caso, terminare di vivere) serenamente. Le immagini non si fanno più icone bidimensionali e l’aspect ratio non è più esclusivamente quello Academy (1:37:1), c’è pochissimo di spirituale e invece molto di mondano, nel senso più mediocre del termine. A differenza di molti altri film di Schrader, però, il senso di colpa del protagonista (un regista stimato) non è tanto per qualcosa che ha commesso, ma piuttosto per ciò che non ha fatto, per tutti i doveri a cui non ha adempiuto e per tutte le prove che ha deciso consapevolmente di non affrontare. Costretto sulla sedie a rotelle e ormai in fin di vita, il personaggio di Richard Gere, per “rimediare” al proprio passato, ha come unico strumento a sua disposizione quello del cinema stesso, la macchina da presa che gli viene puntata da alcuni suoi ex-studenti di regia che vogliono girare un documentario su di lui. In questo senso, se volessimo utilizzare una definizione di Susan Sontag (filosofa più volte citata nel film), potremmo dire che è proprio questa disabilità a rendere anche Oh, Canada, in fondo, un film bressoniano, ponendo come dato iniziale - in linea con tutte le opere del maestro francese - la privazione della libertà. La costrizione è quella spaziale causata dalla malattia, che impone a Leonard Fife di restare chiuso in casa, ma anche quella fisica, che lo tiene prigioniero di un corpo ormai “estraneo”, abitato dalle cellule cancerogene. La libertà, con queste condizioni iniziali, è data dalla possibilità, attraverso il racconto - per quanto confuso e frammentario, per via delle precarie condizioni di salute e dell’anzianità - di evadere dal confinamento viaggiando mentalmente attraverso un’America che fa crescere e invecchiare mentre la si percorre. Una geografia dei luoghi che sembra quella di un film on the road da seduti, solo immaginato, di un western tutto teorico, fatto di avamposti sicuri e lunghe traversate. Genere che, non a caso, ha proprio nella “prigione” uno dei suoi elementi costitutivi.

La biografia dello stimato autore Fife (alter-ego shraderiano?) non ci viene proposta per avvenimenti determinanti, ma solo in una successione di scelte di vita discutibili, sempre ego-riferite, prese senza considerare il dolore che avrebbero potuto provocare in chi le stava per subire: soprattutto donne. La stessa moglie del “reo confesso” è la destinataria principale di questa lunghissima ammissione di colpa, ultimo atto teatrale di un uomo non abituato a dividere la scena con altri, che trasforma anche la sua testimonianza definitiva in una dolorosa umiliazione nei confronti della persona che gli è stata al fianco negli ultimi trent’anni. La fissa costantemente negli occhi attraverso il monitor dell’interrotron di Errol Morris, la chiama ad alta voce appena si assenta per qualche minuto. Tutto questo estremo (e non richiesto) esercizio di sincerità è rivolto a lei, ma le intenzioni non sembrano mai davvero benevole. Come in Bresson, non c’è alcuna voglia di arrivare alla “verità” di un evento (di fare cinéma-vérité, appunto), ma solo la necessità di sfiorare la superficie della realtà. Ed è tanto vero per i due giovani registi che devono confezionare un prodotto televisivo sul protagonista, interessati solo alla pietà che può suscitare nel pubblico l’ultima intervista di un uomo famoso alla fine dei suoi giorni, tanto quanto per Schrader, che non si preoccupa di distinguere l’invenzione dal ricordo attendibile, di dettagliare troppo ciò che Fife racconta del suo passato, di cui non avremo mai un’idea del tutto chiara ed esaustiva. Celebrato per aver messo la sua vita al servizio della realtà, Fife non ha fatto altro che mentire. La domanda che aleggia costantemente durante queste sessioni di registrazione non può che essere la seguente: Freud o “fraud”? Artista o impostore? Domanda che finisce inevitabilmente per evocare anche altri fantasmi, che sono quelli della New Hollywood: una generazione di cineasti ossessionati dalla guerra del Vietnam pur non avendola mai combattuta (ad eccezione di Oliver Stone).