I migliori film (in ordine sparso) del 2024 secondo Stranger Than Cinema, selezionati esclusivamente tra quelli distribuiti in Italia (al cinema, in streaming o con formula ibrida) tra l’1 gennaio 2024 e il 9 gennaio 2025. Sono quindi esclusi i film passati ai festival che non hanno ancora ricevuto regolare distribuzione e, al contrario, sono inclusi film con anno di produzione precedente, ma distribuiti in Italia nel 2024.
L’arte della gioia
La protagonista della nuova miniserie-film di Valeria Golino, che si dimostra sempre più una regista di spiccata sensibilità e con le antenne ben puntate sui gusti e gli umori del pubblico di oggi, è - al contrario del suo nome, Modesta - un personaggio famelico, moderno, assolutamente anacronistico per il tempo del racconto in cui è inserito. Una ragazza che non ha nulla dell’ossequioso rispetto per le regole che il contesto storico e sociale le imporrebbe, ma invece tutto del nichilismo e del cinismo che caratterizzano il nostro mondo contemporaneo. Golino, che la serie l’ha adattata dal romanzo omonimo di Goliarda Sapienza, riesce sempre a farcela percepire vicina a noi, senza che il suo atteggiamento - in più di un’occasione sicuramente non condivisibile e per nulla amabile - ce la renda effettivamente antipatica. Modesta, pur animata da sentimenti fortissimi, da un istinto primordiale a prendersi quello che desidera in ogni maniera e servendosi di ogni stratagemma lecito e (più spesso) illecito, mantiene intatta la sua dolcezza, la sua purezza, un candore che non viene mai del tutto annullato dalla voracità e dall’opportunismo: due tratti distintivi del tempo in cui viviamo e che per questo ce la rendono immediatamente riconoscibile. Questo contrasto, questo annullamento della verosimiglianza, invece che far suonare sbagliato il racconto, gli consente di parlare molto di più al pubblico di oggi.
Ancora un’estate
La prima scena di Ancora un’estate cattura e toglie il fiato: Anne, avvocatessa (Léa Drucker), interroga la sua cliente, una giovane minorenne (Romane Violeau) vittima di stupro, indugiando su questioni dolorose senza battere ciglio e senza un minimo di compassione, con una crudeltà che vuole però essere incoraggiante, dal momento che quelle domande dovrebbero essere - almeno in teoria - propedeutiche alla difesa. È un primo piano contro un primo piano, un faccia a faccia, che sarà l’elemento filmico costitutivo di questa nuova opera di Catherine Breillat, eccezionale nel rendere nuovamente rischiosa quella che è la sintassi di base del campo-controcampo cinematografico. Fin dalla prima sequenza di questo preciso e rigorosissimo film si capisce quindi che tutto il significato stavolta la regista lo ha riposto nel dialogo tra diversi punti di vista e di osservazione. Vediamo Anne (che è anche il nome della sorella, spettatrice impotente, della moglie di Barbablù, racconto fondativo che la regista francese aveva adattato nel 2009) raccogliere la testimonianza convulsa della giovane ragazza abusata e già in quel momento gli stacchi di montaggio diventano fondamentali per capire le dinamiche di potere. Un film che ci abitua sempre a considerare l’immagine da entrambi i lati della macchina da presa (filmico e profilmico, potremmo dire con espressioni vetuste), la fissità ostentata su questo o quel protagonista diventa una scelta che solleva dubbi, domande, ragionamenti, che rende ogni scena di intimità - potenzialmente banale, noiosa, passiva, voyeuristica - un enigma da risolvere.
Estranei
Il reale e il fantasmatico trovano differenti e inediti punti di compenetrazione in questo ultimo film di Andrew Haigh, da sempre regista dell’hic et nunc, del presente come unico terreno di gioco, di epopee condensate nel giro di un fine settimana (Weekend, 2011), di una settimana intera (nonostante il titolo, in 45 years, 2015) o, al massimo, di una stagione, che tiene in sé tutta un’adolescenza (Lean on Pete, 2017). Questo suo nuovo Estranei, trasposizione del romanzo di Taichi Yamada del 1987, subito reso al cinema da Nobuhiko Obayashi un anno dopo, è un complesso strumento che soffia aria nelle immagini, il mantice che il regista utilizza per spingere i fantasmi nel fotogramma. Presenze misteriose che si rivelano allo spettatore in maniera decisamente meno esplicita rispetto al film di Obayashi (in cui esisteva tutto un gioco di rimandi metatestuale con l’estetica televisiva della soap opera nipponica degli anni Ottanta): si rivelano in un flare, nella tenue luce pomeridiana, nella compresenza di pellicola e digitale che caratterizza tutte le scene nell’abitazione del protagonista, il ventre che lo custodisce nel buio, in una solitudine pandemica. I 35mm scelti per la fotografia principale si confrontano con il pannello a led che proietta un cielo in 8K, adesso sereno, adesso nuvoloso, posto al di là della vetrata di questo finto “flat” londinese ricreato in un teatro di posa. Anche in questo caso, coesistono due piani di realtà, che sono anche due piani estetici, a rendere evidente come non ci possa essere mai un solo livello di narrazione in questa storia che racchiude in sé la stessa essenza del cinema, la possibilità di visitare il passato, di avere davanti, vivo, anche chi non c’è più.
Orion e il buio
Orion e il buio è davvero la summa di trent’anni di cinema DreamWorks, molto più di quanto non sia finito per esserlo Wish per i cento anni della Disney. Come per l’audace esordio di Z la formica (con Woody Allen al doppiaggio e con il protagonista modellato sulle sue idiosincrasie), lo studio americano ha scelto uno dei maggiori geni del cinema d’autore statunitense - Charlie Kaufman, mente di sceneggiature complicatissime e raffinate destinate ad un pubblico adulto - e gli ha affidato il compito di tratteggiare una versione giovanile di quel Grande Nevrotico Kaufmaniano che ha sempre proposto con successo in questi anni. Il ragazzino che dà il nome al film ha infatti paura di tutto: della società, dell’amore, dei fuochi pirotecnici, dei clown assassini, delle onde telefoniche, dei bulli a scuola tanto quanto della ragazza di cui è innamorato. Pur raccontando la sua storia in maniera tutto sommato classica, il film riesce ad essere una sofisticata lezione sulla narrativa per l’infanzia e sulla sua evoluzione nel corso del tempo e con il passare delle generazioni (di autori e lettori). Il modo in cui la storia viene presentata, aggiustata e modificata da narratori differenti per età, ci restituisce un entusiasmante campionario di stratagemmi creativi e un ampio spettro di sensibilità rispetto al racconto che si propone allo spettatore: quella fatalista di una generazione più anziana, magari legata alle storie di Roald Dahl, spesso prive del classico e conciliante “lieto fine” riparativo, in cui i protagonisti venivano messi davanti alle conseguenze irreversibili delle loro azioni, a quella più abituata a giocare con la metatestualità e con il sovrapporsi dei piani narrativi, che è quella cresciuta con i film Pixar.
Nothing (Nada)
Questo nuovo piccolo capolavoro d’intelligenza firmato dal duo Mariano Cohn e Gastón Duprat risponde perfettamente alla definizione che della cucina argentina ne dà il protagonista, critico culinario snob e cinico, interpretato splendidamente da Luis Brandoni: un’invenzione mostruosa eppure geniale, che consiste in un mix fantasioso di piatti italiani e spagnoli che però non esistono davvero né in Italia né in Spagna. Che poi è esattamente quello che succede oggi con tantissime serie tv prodotte per le piattaforme e pensate fin da subito per un pubblico globale, create mischiando ingredienti che ne ricordano vagamente altre, in maniera tale da dare l’impressione agli spettatori di trovarsi davanti a qualcosa di nuovo ma comunque familiare, a cui ci si è già fatti la bocca (e gli occhi). Ed è così che, fin dall’inizio, Cohn e Duprat tracciano un raffinato parallelismo tra Buenos Aires e New York attraverso le inquadrature (le griglie delle strade come quelle di Manhattan), la musica utilizzata (jazz elegante ma poco impegnativo come Allen insegna), persino le luci dei lampioni e la scelta delle location: parchi, caffè, ristoranti che ne ricordano di più iconici e conosciuti nella Grande Mela. Lo stesso Manuel Tamayo Prats, dandy in decadenza sempre con il broncio, famoso per il suo carattere poco accomodante, che vive di rendita sulle spalle di un passato di grande influenza, ha un alter-ego statunitense decisamente più noto: lo scrittore di origini italiane Vincent Parisi, portato su schermo, grazie ad una miracolosa scelta di casting, da Robert De Niro (diretto benissimo - e quindi bravissimo - persino quando il suo apporto si limita al voice-over o a brevi interventi da narratore esterno). In questa equazione, De Niro sta a Brandoni come l’obelisco di Buenos Aires sta a quello di Washington: più grande e più famoso nel mondo.
I Dannati
La prima incursione di Roberto Minervini nella finzione è un film di guerra che mette l’attesa, la noia e il dubbio al centro della sua speculazione filmica. L’occhio di Minervini è abbastanza rigoroso da voltare le spalle a tutto l’immaginario spettacolare e patriottico che generalmente il genere si porta dietro, riuscendo a catturare tutti i dettagli di un conflitto che effettivamente non vediamo mai per davvero. Con un affascinante senso di ellissi che oscura il tempo e lo spazio, I Dannati descrive la routine quotidiana quasi senza parole dei soldati – turni di guardia, giochi di carte, manutenzione delle armi – con sorprendente meticolosità. Raramente il cinema sembra prestare così tanta attenzione e sensibilità all’insieme delle esperienze che compongono l’esperienza di un conflitto armato nell’attesa che questo entri effettivamente nel vivo. La nebulosità del film di Minervini ci permette di sperimentare il modo in cui un territorio ostile ingoia lentamente gli uomini che lo abitano. I soldati dell’Unione che nel 1862 vagano come esploratori o anime perse nei paesaggi del Montana, finiranno per dover usare le armi quando all’improvviso, dopo ore trascorse a contemplare il vuoto di giorni anonimi, si ritroveranno esposti al fuoco del nemico invisibile. Sarà l’unica sequenza d’azione di un film invece molto più interessato a raccontare la peregrinazione in uno spazio da difendere, ma i cui contorni si disfano progressivamente, perdendosi, così come lo spirito di servizio che aveva inizialmente spinto questi giovani verso l’uniforme.
Furiosa
Per capire bene cosa separa davvero Fury Road dal suo prequel, non si può non prendere in considerazione il film che nel frattempo, durante gli anni trascorsi tra gli ultimi due capitoli della saga di Mad Max, è stato realizzato da George Miller. Quel Three Thousand Years of Longing capace, in maniera affascinante, di rappresentare un commovente appello al potere curativo del mito e alla sua infinita capacità di seduzione. Come in quel caso, questo Furiosa, in netta contrapposizione con Fury Road, è un film condotto da una voce che proviene da lontano, narrato da una mente enciclopedica che custodisce un sapere ancestrale, in maniera non molto dissimile dal Djinn di Idris Elba. Si comincia da un Eden biblico completamente digitalizzato, in cui il frutto da cogliere è una mela (un frutto misteriosamente manipolabile dai poteri magici, scriveva Guido Ceronetti) che diventa viatico per la conoscenza, in grado di risvegliare in chi l’afferra la coscienza delle nozioni di Bene e Male. Oggetto dall’ambivalente facoltà: capace, nelle mani del profeta Malachia, di rianimare, oppure potenzialmente letale come in tante fiabe dei fratelli Grimm. In questo caso, Miller addenta il pomo, si carica consapevolmente il peccato originale di una computer grafica invadente, che reclama un proprio ruolo nello stile visivo complessivo di un film che, diversamente da Fury Road, non aderisce alla sabbia rossa su cui sfrecciano i veicoli, ma tende verso l’alto, verso quel “paradise lost” a cui si spera di poter finalmente tornare. L’ultima speranza in cui confidare per resistere al sopravvento di quella “religione ctonia” invece fondata sulla esaltazione dello “spirito” meccanico e sulla trinità che lo rappresenta: quella della Velocità, della Macchina e della Guerra. Di quel desiderio omerico, di quel nostos, rimane sempre una traccia visiva, una scoria digitale che illumina per fluorescenza una palette altrimenti terrigna, di un film condannato alla propria secolarità (come lo era il precedente, in cui ogni promessa di ritorno era già desertificata).
Marcello Mio
Marcello Mio evoca innanzitutto la questione del lutto, fondamentale nei film di Christophe Honoré fin da Plaire, aimer et courir vite (2018). Se il giovane ragazzo di Le Lycéen (2022) diventava muto in seguito alla morte del padre, Chiara Mastroianni qui si trasforma in Marcello. Ma non è tanto perché ha delle cose in sospeso da sistemare con il suo ingombrante genitore – che è piuttosto il caso della Catherine Deneuve nel film – ma per ritrovare se stessa attraverso di lui. E infatti, la Mastroianni mette in scena qui un Marcello favoloso, che è totalmente se stesso senza essere imitazione. Honoré le offre un modo di essere attrice che, paradossalmente, è più lontano da lei di qualsiasi cosa abbia fatto fino a questo momento. È un Marcello campy e queer (che ricorda quello di Niente di grave, suo marito è incinto in Demy), che fugge dal set di una televisione italiana e trova in Fabrice Luchini il suo migliore amico. La questione della fluidità è centrale nel film, non solo quella del genere, ma anche quella dell’elemento acquatico. Tra una fontana e una scena sulla spiaggia (un cenno alle riprese de La cagna di Marco Ferreri, quando i suoi genitori si sono conosciuti), e attraversato dalla Senna, Marcello Mio compone la storia di una commovente rinascita amniotica.
Le belle estati
Un progetto realizzato da Mauro Santini con gli studenti del Liceo Artistico Mengaroni di Pesaro, in cui la lettura ad alta voce di due fondamentali romanzi di Cesare Pavese - La bella estate e Il diavolo sulle colline - diventa uno strumento per raccontare la propria adolescenza, tutta la gioia, la vitalità, ma anche la malinconia di esistenze in fase di definizione. Opera poetica e gentile, che mette in scena con estremo pudore e con fare gioioso, le voci, i volti e i corpi degli studenti chiamati a dare vita ai personaggi di due romanzi fondamentali nella formazione giovanile dello stesso regista. Un’occasione che ha permesso ai ragazzi di sentire la vicinanza delle tematiche affrontate da Pavese rispetto al loro vissuto e di restituirla allo spettatore con il proprio sguardo, attraverso il modo di porsi davanti alla macchina da presa, a volte spavaldo a volte più timido. Un film aderente alla realtà emotiva che racconta ma che si concede anche la possibilità di sperimentare “piccole finzioni” che si trasformano, anche inconsapevolmente, in momenti di grande verità e purezza. Il progetto ha permesso inoltre allo stesso Santini di indagare, insieme ai ragazzi, una possibile deriva futura del suo cinema, lavorando con strumenti e tecniche fino a questo momento da lui mai utilizzate.
Inside Out 2
Se già il primo Inside Out racchiudeva elegantemente in sé tutta la poetica Pixar, che ha sempre rivendicato il ruolo centrale dell’audiovisivo nel conoscere la verità e arrivare davvero in fondo alle cose (ovvero l’unica maniera per capire il mondo è quella di guardarlo attraverso uno schermo, come fanno le emozioni nella mente di Riley), questo secondo capitolo compie un passaggio in più, lavorando benissimo sulla commistione di stili d’animazione differenti: la bidimensionalità dei primi cartoni animati per la televisione, la grafica poligonale dei vecchi videogiochi di inizi anni 2000 e persino la stop-motion fatta con ritagli di carta. Tutte tecniche “datate” che aiuteranno, in maniera diversa, i protagonisti ad affrontare il loro viaggio, approdando, alla fine, ad una gemma digitale (la coscienza di sé, per Riley) dalla composizione sempre cangiante, in costante adattamento, come un algoritmo che impara ad analizzare il contesto e a mutare di conseguenza. La stessa scintilla che animava i modelli dei due protagonisti del precedente (e sottovalutatissimo) Elemental: personaggi parzialmente guidati da un’intelligenza artificiale in un mondo invece ideato, realizzato e perfezionato dalla creatività umana. Un nocciolo di coscienza digitale, algoritmica, anche nel più umano dei luoghi: la mente. Sono tutti piccoli dettagli che ci dicono, oggi, che forse un cinema d’animazione come quello della Pixar di vent’anni fa non è più possibile e che il controllo totale sulla propria opera animata è ormai un’utopia. Tanto vale accettare il caos, l’indeterminazione, la contaminazione. L’Ansia.
The Bikeriders
Ispirato da un libro-album di Danny Lyon, fotografo al seguito dei Vandals, gruppo di motociclisti degli anni ’60, Jeff Nichols torna sull’asfalto e nella polvere del Midwest. Fin dall’inizio i motori rombano forte, eppure The Bikeriders non è, sotto molti aspetti, quello che sembra. Innanzitutto non è tanto un’epopea motociclistica alla Easy Rider quanto più un thriller mafioso, che cita espressamente i codici linguistici dei suoi predecessori (Scorsese e De Palma). Jodie Comer è quindi una nuova variazione degli stessi personaggi che un tempo furono di Lorraine Bracco (Quei bravi ragazzi) o Penelope Ann Miller (Carlito’s Way) e, identicamente, lo stesso leader del clan (Tom Hardy) guarda Marlon Brando in The Wild Team, che gli appare come un’epifania e a cui subito ruba una battuta di dialogo. Questo è il leitmotiv di The Bikeriders: diventare una replica, una copia, giocare anche con la propria estetica per emulare quella stessa sensazione tattile che comunicavano le foto di Lyon. E di quelle fotografie mette in scena anche la stasi, la fissità, spesso impedendo ironicamente ai suoi eroi di sfrecciare a tutto gas, ma mostrandoli invece fermi, in attesa, al riparo. Alla fine, quindi, The Bikeriders è un film ambientato non tanto per strada quanto nei bar, nei parcheggi, nelle piazzole di sosta in cui i protagonisti ristagnano.
The Room Next Door
Se dovessimo indicare due elementi che rendono un film di Pedro Almodóvar immediatamente riconoscibile, diremmo subito: i costumi e gli ambienti. E non è un caso che la scelta di Martha di ricorrere - illegalmente - all’eutanasia derivi proprio dalla voglia di poter decidere, nell’ultimo momento della propria esistenza, cosa vestire e dove morire. Gli oggetti da cui essere circondata, la vista di cui poter godere dalla finestra, il trucco da poter indossare un’ultima volta sul viso. Insomma, avere la possibilità, di cui si è privi in una stanza d’ospedale, di immaginare “l’ultima inquadratura” del proprio film. È attorno a questo desiderio - che più almodovariano non si può - che ruota tutto The Room Next Door, primo lungometraggio in lingua inglese del regista spagnolo: dramma stilizzato sull’avventura terminale di due amiche. Una (Tilda Swinton) che ha deciso di accelerare la sua fine e l’altra (Julianne Moore) che ha accettato di essere sua complice. La prima è una cronista di guerra, abituata a raccontare la realtà senza infingimenti, la seconda è invece una scrittrice di romanzi di successo, che con la finzione ci lavora e si trova a proprio agio. Non a caso, Martha è abituata all’idea della fine, anche improvvisa, dolorosa, violenta, Ingrid ne è invece terrorizzata e farebbe di tutto per allontanarne il pensiero. Posto sotto il segno di The Dead, capolavoro di Joyce prima e di John Huston dopo, riletto sotto la lente pessimistica del cambiamento climatico (“la neve che cade sui vivi e sui morti” continuerà a cadere regolarmente anche nei prossimi anni?), il film dispiega il suo fascino luminoso con una sensibilità semplice e frontale.
Il Robot Selvaggio
I primi folgoranti minuti de Il Robot Selvaggio, completamente muti, ci mostrano una “natura selvaggia”, radicalmente differente da quella tipicamente presentata dai cartoni animati con animali parlanti e invece molto più vicina a quella dei film di Herzog: un posto dove la morte è sempre dietro l’angolo, che minaccia continuamente l’incolumità fisica dei propri abitanti, popolato da bestie interessate solo alla propria sopravvivenza, diffidenti e violente nei confronti dell’estraneo che arriva ad invadere il loro territorio. Estraneo che solitamente, in storie come questa, è l’uomo e che in questo caso invece è un robot. Una macchina originariamente programmata per svolgere compiti di assistenza nella vita quotidiana degli esseri umani che si trova costretta ad adattarsi a un ambiente ostile, nel disperato tentativo di trovare nuove mansioni da svolgere e nuovi “utilizzatori finali” da soddisfare tra la fauna selvatica locale. Che, però, di essere aiutata, servita e riverita non ne vuole sapere. Sarà una paperella appena uscita dal suo uovo che sveglierà nella macchina un istinto materno, sconvolgendo la sua programmazione e mettendo in risalto il vero tema del film, che poi è quello di tutto il cinema di Chris Sanders: la messa in discussione di ogni forma di appartenenza a un gruppo, a un “branco”, e di obbedienza alle regole. Non solo quelle “artificiali” del robot, ma anche quelle naturale degli animali, chiamati, in una delle scene più belle del film, a dover frenare i propri istinti predatori per una notte perché costretti a convivere in una capanna angusta.
Emilia Pérez
Emilia Pérez è il punto finale di quella transizione di genere che Jacques Audiard, famoso per le sue storie cupe, durissime e maschili (anche se di mascolinità vacillante, fin dai tempi di Regarde les hommes tomber, nel 1994), ha operato sul suo cinema negli ultimi anni. Prima scorrazzando allegramente nell’America del diciannovesimo secolo in compagnia dei suoi fratelli Sisters, personaggi già dal loro cognome emblematici del tentativo di parodiare e disinnescare il suo stesso cinema e ovviamente un rigido canone di virilità, e poi con il successivo Les Olympiades. Da sempre affascinato dal machisimo e dalla potenza maschile (Un profeta, Dheepan, Tutti i battiti del mio cuore), in quel caso aveva mosso un secondo, decisivo, passo verso nuovi territori, scegliendo di scrivere il film assieme a due dei più limpidi talenti femminili del cinema francese di oggi: Léa Mysius (Roubaix, une lumière) e Céline Sciamma (Ritratto di una donna in fiamme). Raccontando i nuovi codici dell’amore digitale, si tentava la definitiva archiviazione del cinema maschio: ingentilito e ringiovanito, oltre che più variegato nelle lingue e nelle provenienze etniche dei suoi protagonisti. Fluido, tra quei generi (cinema e non solo) prima mai presi in considerazione dal regista. Adesso, questo Emilia Pérez, raccontando la vicenda di un signore della droga messicano che decide di cambiare sesso e diventare donna, è la rappresentazione plastica (letteralmente) del cambiamento avvenuto progressivamente negli anni: cinema d’azione potenzialmente spietato, quello che parla di desaparecidos e cartelli del narcotraffico, trasformato in una commedia musicale. L’operazione, cinematograficamente parlando, è però serissima. La scelta del musical non è solo uno stratagemma ironico, di contrapposizione tra l’oggetto della narrazione e il suo tono, ma una direzione stilistica perseguita con grande rigore, coinvolgendo anche questa volta i migliori talenti (molto dei quali femminili e queer, senza alcuna logica di bilanciamento e quote, ma di riconoscimento della qualità) per le musiche e le coreografie. La colonna sonora è composta da Clément Ducol, ma i i testi sono stati scritti originariamente in francese (e poi tradotti) dalla cantante Camille, mentre la coreografia è stata ideata da Damien Jalet e i costumi da Anthony Vaccarello (dal momento che la casa di moda Yves Saint Laurent è coproduttrice del progetto).
Anora
Pur avendo cambiato il suo stile e facendo oggi molto più affidamento sulla sceneggiatura rispetto agli inizi, quello di Sean Baker è rimasto un cinema principalmente interessato a raccontare la classe media e gli strati più poveri della società statunitense, mappando l’America contemporanea attraverso le sue comunità marginali e attraverso la figura centrale del cosiddetto “hustler”: termine pressoché intraducibile che indica, genericamente e benevolmente, chi si guadagna da vivere con ogni stratagemma (o, in senso dispregiativo e più specifico, chi vende il proprio corpo). Stavolta la stella da far brillare (d’altronde il suo nome, “Anora”, vuol dire proprio quello nella lingua natia) è la giovanissima comica Mickey Madison, ai più conosciuta come Max Fox nella serie Better Things, che fin da subito ci appare irresistibile per il modo giocoso e malizioso con il quale offre la propria sessualità, per la spavalderia con cui contratta le prestazioni nel locale a luci rosse nel quale lavora. Con pochissimi gesti capiamo tutta la sua potenza, la sua scaltrezza, il desiderio di riscatto che la agita, ma anche la tenerezza, la fragilità che la spinge a lasciare tutto per il sogno di una storia d’amore vera. Fissata questa immagine di lei, con l’avanzare della trama, la protagonista diventa tutta un’altra cosa, non più connotata da dolcezza e giovanile spudoratezza, ma da rabbia e insubordinazione, persino violenza, nel momento in cui comincia a sgretolarsi quell’idillio iniziale così minuziosamente rappresentato, l’utopia di annullamento delle differenze sociali che Baker - da ottimo prestigiatore - aveva reso plausibile non solo davanti agli occhi della giovane ragazza, ma anche davanti agli occhi del suo pubblico.
In a violent nature
Nelle mani di Chris Nash il mostro dall’oltretomba tipico degli slasher, il silenzioso assassino monodimensionale destinato a rimanere un mistero insondabile per lo spettatore, diventa una figura drammatica, candida, quella di un boogeyman che è sì vendicativo, ma anche, soprattutto, un ragazzo con degli evidenti problemi psichiatrici. Ecco allora che la questione si fa complessa: la sua creatura non è un automa sterminatore, ma ciò che resta di un ragazzino disadattato, traumatizzato, che reagisce in modo crudele e catastrofico all’indifferenza generale di un mondo in cui sente alieno, estraneo. Non tanto Jason Voorhees, ma piuttosto il protagonista di Elephant, o di Gerry, di Gus Van Sant. Come fosse Kurt di Last Days, appunto. Grandissime ambizioni d’autore, quindi, per un horror che non è comunque affatto timido o impacciato quando c’è da mettere in scena la violenza con la perversa eccitazione che il genere impone. Nash, d’altronde, proviene da un background nel reparto degli effetti speciali, avendo precedentemente lavorato come supervisore degli effetti delle creature sul set in Psycho Goreman. E non è un caso che stavolta, per ricambiare il favore, abbia arruolato proprio lo sceneggiatore/regista di Psycho Goreman, nonché mago degli effetti artigianali per il cinema, Steven Kostanski per gli effetti protesici del film.
I Delinquenti
Prendendo spunto da un vecchio film poliziesco di Hugo Fregonese - Apenas Delincuentes del 1949 - e da un reale caso di cronaca, l’argentino Rodrigo Moreno racconta la storia di un impiegato di banca che, terrorizzato dalla prospettiva di dover passare la sua intera vita a lavorare in un ufficio, decide di rubare, senza avarizia, il doppio della quantità di soldi che guadagnerebbe lavorando fino alla pensione. Un bottino da dividere una metà per sé, che si costituirà e sconterà una pena di tre anni e mezzo in carcere, e una metà per il collega che terrà quei soldi nascosti in casa, fino alla sua uscita dal carcere. Le premesse sono dunque quelle dell’heist movie, tuttavia i connotati di questo genere (come quelli di un altro poliziesco atipico, anch’esso argentino, ovvero Trenque Lauqen) si perdono e la narrazione si frantuma completamente. Quello che potrebbe essere un frenetico film di genere diventa quasi un esperimento tutto mentale, che gioca con il tempo cinematografico e con gli anacronismi ricorrenti per manifestare intenzionalmente la propria dimensione fittizia: fragorosa presa di posizione che torna irrimediabilmente Borges, nume tutelare, quando esibisce le proprie invenzioni cinematografico-letterarie, esasperandole.
Vittoria
Fedele al loro approccio rigoroso alla realtà, Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman scelgono anche per questo secondo lungometraggio di “finzione” di non ingaggiare attori professionisti, ma di far recitare i veri protagonisti della storia che raccontano, che si ritrovano così a rielaborare davanti alla macchina da presa memorie, momenti, sentimenti, che hanno davvero vissuto e che adesso vengono rimaneggiati alla luce delle possibilità che apre l’utilizzo della scrittura cinematografica. Nonostante il potenziale carico emotivo del film, gli spunti drammatici che la vicenda offrirebbe, Kauffman e Cassigoli scelgono di rinunciare al buonismo ostentato dei sentimenti, ma invece raccontano con mano leggera di un desiderio (quello di adottare una “bambina”, dopo tre figli maschi) che non è necessariamente razionale o imposto da cause biologiche (l’impossibilità di avere figli, come accade in molti casi di coppie che scelgono la via dell’adozione) e che può essere persino dettato da motivi talmente intimi, imperscrutabili, da apparire egoistici (così come dimostra la preoccupazione della donna rispetto alla possibilità di adottare una bambina con disabilità). L’ambito famigliare in cui vive Jasmine è tutto maschile, ma di una mascolinità non stereotipata, persino remissiva (il marito), fragile (il figlio con l’ansia rispetto al venir meno delle attenzione materne davanti a una nuova bambina da accudire), più spaventata dal cambiamento che ostile ad esso per ragioni di prepotenza. E non è un caso che sarà proprio una figura maschile a fare il passo decisivo, coprendo quell’ultimo miglio davanti al quale anche la protagonista, fino a quel punto inscalfibile nelle proprie convinzioni, apparirà titubante.
Sull’Adamant
Primo di un trittico che il documentarista francese Nicolas Philibert ha dedicato al mondo della psichiatria moderna in Francia, Sull’Adamant racconta i momenti di incontro e relax tra operatori sanitari e pazienti su una barca ormeggiata lungo la Senna: un luogo vivace, di pace, meta di passeggiate, in cui i pazienti si ritrovano per socializzare lontano dalla durezza del mondo esterno. Una superficie riflettente che rende difficile distinguere tra pazienti e caregiver, separare chi è filmato da chi filma. Una “nave dei folli” come quella del film di Stanley Kramer, uscito nel 1965, con Vivien Leigh e Simone Signoret, che però è allo stesso tempo un avamposto di di civiltà, di impegno, di dedizione. Il trittico di Philibert punta a dimostrare che la psichiatria moderna funziona, nonostante la carenza di risorse e tutte le difficoltà del caso. Produce dei risultati evidenti, che il film tenta di documentare affinché chi deve possa trarre le necessarie conclusioni. Lo stesso luogo oggetto del film è unico, peculiare, cinematograficamente perfetto nella sua essenza di ospedale galleggiante, ma è anche e soprattutto anch’esso il risultato di una lunga lotta. Erano infatti anni che il dottor Eric Piel, direttore del settore psichiatrico dell’ospedale di Esquirol (Val-de-Marne), aveva in mente questa idea: costruire su una chiatta un ospedale diurno per pazienti psichiatrici, così da mettere plasticamente in pratica gli insegnamenti del catalano François Tosquelles, ideatore della psicoterapia istituzionale, di cui affermava di essere l’erede.
Flow
Se Away, il precedente film di Gints Zilbalodis, raccontava la storia di un ragazzo isolato su un’isola, senza aiuto, senza possibilità di comunicare con gli altri, questa sua seconda opera, mettendo in scena una bizzarra e variegata comitiva di animali che devono navigare nelle acque della fine del mondo (o, meglio, dopo la fine della razza umana), in qualche modo riflette il passaggio dal lavorare da solo in una stanza con il computer (che è il modo in cui il regista lettone ha realizzato il suo primo lungometraggio) al lavorare con un team di animatori ingaggiati tra Francia, Lettonia e Belgio. Flow, infatti, è un film corale sia su schermo che dietro di esso, che racconta di un gatto, ma anche di un autore, indipendente, abituato a stare da solo, che deve imparare a cooperare con gli altri. Anche stavolta, come nel precedente progetto, l’utilizzo di software di animazione 3D pensati più per i videogiochi che per il cinema conferisce al film un aspetto irreale, grazie a una computer grafica che ha tutta la ruvidezza tremolante del sogno. Nuovamente troviamo la fascinazione per Hayao Miyazaki, ma anche quella per videogiochi come ICO e Shadow of the Colossus: influenze che danno al regista la confidenza necessaria per presentare la sua storia in medias res, come spesso avviene nei videogiochi, ambientandola in un mondo che non ha bisogno di spiegazioni, che è un elemento dato per assodato fin dall’inizio senza dover necessariamente spiegare allo spettatore come e quando si è venuto a creare lo scenario apocalittico nel quale i protagonisti si ritrovano. Come accade per i videogiochi, è dall’ambiente che inizia tutto. Zilbalodis crea tutto il setting tridimensionale e solo successivamente sceglie i punti dove posizionare la “macchina da presa”, facendo una ricognizione dei luoghi come se ci si trovasse davvero fisicamente dentro quel mondo e fosse necessario fare del location scouting come per i film con attori e ambientazioni reali. È un lavoro di preparazione fondamentale, perché in Flow i sentimenti – la curiosità, la paura – si esprimono innanzitutto attraverso i movimenti di macchina, con la telecamera - fondamentale anch’essa nel gaming - che diventa quasi un personaggio a sé stante: a volte molto vicina agli animali, a volte distante, come distratta da qualcosa nel paesaggio.
The Beast
Il nuovo film di Bonello è un’ambiziosa antologia di generi, una finzione a più livelli tenuta insieme da un tema comune vecchio come il mondo (e come il cinema): quello dell’amore tra un uomo e una donna. Un sentimento frustrato nel corso dei secoli, ma ugualmente resistente nel passaggio tra le diverse epoche, in cui i protagonisti si reincarnano per riprovare nuovamente e all’infinito la mancanza l’uno (George MacKay) dell’altra (Léa Seydoux). Un film sulla distopia delle intelligenze artificiali al comando, ma anche, più “semplicemente”, un tortuoso trattato sulla conservazione (e conversazione) del desiderio, sulla possibilità di trattenerlo e sopprimerlo per l’eternità, lungo una storia fatta di abbracci spesso congelati nel loro slancio, in cui si sbaglia e ci si lascia travolgere da qualcosa sempre di più grande, più forte, più urgente. Tutto finisce male, in questo film di Bonello, ma tutto ricomincia inesorabilmente di nuovo, non importa quante volte si fallisca. L’interpretazione, molto personale, chiusa in una dimensione mentale, che qui viene fatta del racconto di Henry James conserva solo l’argomento iniziale: la premonizione di una terribile e misteriosa catastrofe a venire, che questa volta opprime la sua eroina mentre il protagonista maschile, un certo Louis, diventa il confidente di questa inquietante convinzione. Léa Seydoux (pochi ricordano che l’attrice ha recitato nell’adattamento di Christophe Gans de La bella e la bestia dieci anni fa, nel ruolo della giovane donna innamorata del mostro) è la luce che illumina questo palcoscenico fantascientifico, il corpo che si fa carico di tutto, la voce che si dimostra capace di far gelare il sangue con un urlo. In un cammino inesorabile verso un’epoca ridotta al suo freddo vuoto, condannata a un godimento impossibile, sulla via della disincarnazione dei corpi, delle emozioni dissolte nel cloud.
Giurato numero 2
“Deserve’s got nothing to do with it”. È quello che dice William Munny a Little Bill ne Gli Spietati ed è uno dei temi conduttori del cinema di Eastwood, specialmente negli ultimi anni, da Sully a Richard Jewell: non sempre è possibile ottenere ciò che ci si meriterebbe. Anzi, quelli eastwoodiani sono spesso eroi che vengono contestati, processati, attaccati ingiustamente, incolpati per crimini che non hanno commesso o posti sotto il severo giudizio di un sistema che non consente che si operi al di fuori delle sue regole, anche se per necessità o per un bene superiore. È ovviamente un tema che ricorre tantissimo in questo suo ultimo Giurato numero 2, un thriller di elegante classicismo, ma allo stesso tempo complicato e ricco di sfumature, che testa tutti i limiti della giustizia americana, mostrata come un meccanismo farraginoso che facilmente si inceppa e finisce per condannare innocenti e lasciare liberi i veri colpevoli. Raccontando contemporaneamente il ruolo pubblico del protagonista (come giurato) e il suo vissuto privato, il regista finisce per attaccare duramente e senza sconti un’altra istituzione cara al conservatorismo americano: quella della famiglia, che qui si mostra nelle sue logiche chiuse, da clan. Un’organizzazione sociale che punta innanzitutto alla propria autoconservazione, che pone gli interessi dei suoi componenti davanti a quelli di tutti gli altri. Anche in questo caso, è la responsabilità individuale che fa la differenza, ma nel contesto famigliare sembra più difficile prendere delle decisioni che non siano dettate esclusivamente dall’egoismo. Un posto che preserva non tanto l’affetto, quanto la menzogna. Giurato numero 2 diventa così un’affascinante indagine su come il male possa circolare in assenza di sufficienti anticorpi nella società civile, fino a penetrare nel cuore della situazione domestica più ordinaria e rassicurante. Un sistema, quello famigliare, che per contrapposizione infonde una nuova fiducia in quello giudiziario, pur duramente criticato. Se nel primo caso è più facile nascondere, dissimulare, fare finta di nulla e tirare a campare, nel secondo caso è più alta la possibilità che qualcuno, ad un certo punto, venga a bussare alla porta per saldare i debiti con la giustizia. Almeno fino a quando - e qui si torna alla responsabilità individuale - ci sarà qualcuno (probabilmente una donna) che deciderà di non fermarsi davanti a un verdetto che non convince.
Grand Tour
Nel 1918, Molly insegue il suo fidanzato Edward, un funzionario dell’Impero britannico con cui si deve sposarsi. Il codardo è fuggito attraverso sette paesi del sud-est asiatico che scopriamo essere altrettante porte che si aprono su mondi segreti. La Cina era però una meta irraggiungibile al momento delle riprese, interrotte all’inizio del 2020 con l’annuncio del confinamento globale. Se Grand Tour è una raccolta di viaggi, è anche il documentario poetico delle sue stesse riprese. È infatti da una casa di Lisbona che Miguel Gomes ha guidato una squadra di operatori che ha attraversato l’intero paese, dando loro indicazioni in tempo reale su cosa catturare con la propria macchina da presa. I linguaggi si mescolano in uno strano sogno, tra bianco e nero e colori, scene di marciapiede e vaporose sequenze in studio, con la sua profonda musicalità, che attraversa il film dall’inizio alla fine. Questi movimenti attraverso l’Asia contemporanea si realizzano attraverso il prisma dei suoi spettacoli, a misura d’uomo, tra marionette e karaoke, all’angolo di una strada o nel retro di un ristorante, nel burlesque che porta alla luce tutta la codardia degli uomini e tutta la bellezza dell’amore delle donne. Perché nessuna trama o episodio potrà davvero contenere ciò che interessa fondamentalmente il cinema di Gomes ormai da due decenni: far sì che diversi mondi alla deriva possano entrare in contatto e trovare una loro armonia.
Dahomey
Anche le statue muoiono, ipotizzavano Alain Resnais e Chris Marker in un cortometraggio del 1953 (così intitolato), in cui l’arte africana veniva raccontata in contrapposizione alla violenza del colonialismo europeo che la stava cancellando, non ritenendola degna, esaminando il profondo discredito a cui era stata sottoposta e il razzismo insito nella sua analisi. Per aver sollevato una questione del genere nel 1953 (un anno dopo l’inizio della guerra d’Algeria), il film fu praticamente fatto sparire per quasi un decennio. Di storia coloniale, museografia, razzismo e statue racconta l’altrettanto bellissimo documentario di Mati Diop, che ci dice che sì, le statue muoiono, ma possono anche rivivere. Il miracolo di questa rianimazione è quello che racconta Dahomey, che prende il suo nome dall’antico regno africano, situato nell’attuale Benin, saccheggiato alla fine del XIX secolo dalle truppe francesi, che ne trafugarono numerose opere. Nel novembre 2021, la Francia ha accettato di restituire 26 pezzi al Benin. Dal museo parigino Quai Branly, dove erano esposti prima del loro ritorno, fino al Palazzo Presidenziale di Cotonou, che li ha accolti nel loro luogo di provenienza, Mati Diop concepisce il suo film come un affascinante diario di viaggio, dal punto di vista (magico) delle opere stesse, che descrivono dettagliatamente le emozioni, le fantasticherie, i pensieri segreti che “agitano” queste statue metà uomo e metà animale. Le statue parlano quindi, in un linguaggio poetico elaborato dallo scrittore haitiano Makenzy Orcel, e con un’enunciazione rallentata, vocodorizzata e sepolcrale. Le forze dello spirito emergono con loro dalla terra e la regista di Atlantique (2019, Grand Prix al Festival di Cannes) ci invita ad assistere stupiti a questa migrazione delle anime (e delle pietre che le contengono).
Memory
Tutto il cinema di Michel Franco racconta dei traumi irrisolti che ci trasciniamo faticosamente tra le rovine del nostro mondo. Un mondo - il suo, come il nostro - popolato da personaggi psichicamente e fisicamente danneggiati, abbandonati a loro stessi, costretti a confrontarsi con solitudine, dolore e vergogna. In questo nuovo Memory, due persone (Jessica Chatain e Peter Sarsgaard) si trovano insieme, un po’ per caso e un po’ no, a specchiarsi in problemi esattamente speculari. A mettere, per la prima volta nel cinema di Franco, quei tre sentimenti principali - solitudine, dolore, vergogna - in comunione. Da un lato una donna che non riesce a dimenticare le violenze subite da ragazzina, che vive nel presente tormentata dal ricordo indelebile di un fatto passato. Dall’altro un uomo affetto da demenza che invece ha la difficoltà opposta, quella di non riuscire più a tenere traccia del proprio vissuto. Due persone, insomma, la cui memoria è stata compromessa in modi differenti: in un caso dalla malattia, nell’altro dallo shock per ciò che si è dovuto patire, che annebbia e offusca la percezione di tutto ciò che si vive dopo. Da questo scenario iniziale Franco sviluppa quello che apparentemente può sembrare un thriller ma che, risolto parzialmente il mistero iniziale, vira presto su terreni sentimentali da cui il regista messicano, spesso accusato di realizzare film “punitivi” nei confronti degli spettatori, si è sempre tenuto lontano. È così che Memory finisce per rinunciare, almeno in alcuni momenti, a quella crudele distanza che ha sempre contraddistinto la sua filmografia, concedendo persino allo spettatore la possibilità di empatizzare con i protagonisti, di comprenderne gli atteggiamenti respingenti o aggressivi.
Here
Come nel fumetto di Richard McGuire che lo ha ispirato, il nuovo film di Zemeckis è composto da una sola inquadratura fissa, una finestra sul mondo rappresentativa di uno spazio ben delimitato e, soprattutto, del tempo che lo attraversa. Questo pezzo di terra, colpito per la prima volta durante la Preistoria dall’asteroide che ha annientato i dinosauri, accoglie le fondamenta di una casa e con essa le numerose generazioni che la abiteranno nel corso dei secoli. Non siamo totalmente distanti da quella Hill Valley californiana che nella trilogia di Ritorno al Futuro visitavamo nel 1885, 1955, 1985 e nel 2015. Così come non siamo troppo lontani dalla miniaturizzazione dell’esistenza umana di Welcome to Marwen. Here, infatti, appare subito come una summa di tutte le ossessioni del cineasta americano - il tempo, la casa, il corpo digitalizzato dell’attore - organizzate secondo un dispositivo foucaultiano che le cattura, le orienta e le modella. Zemeckis rimette insieme lo stesso team di Forrest Gump: un altro film che, in maniera differente, teneva insieme sconvolgimenti epocali, collettivi, di una società nella sua interezza, con storie più piccole e private, senza che i protagonisti di queste ultime se ne rendessero davvero conto. E così Here pone sullo stesso piano cataclismi, guerre e innocue conversazioni tra parenti, permettendo alla casa in cui è ambientato molto del film di raccontare il passare degli anni attraverso i piccoli cambiamenti nell’arredamento e nel design. Una riparografia (come veniva definita la “pittura delle cose umili”) che ci indica mode, tendenze e costumi di questa o quell’epoca con gli oggetti di uso quotidiano, solleticando il “piacere che dà lo spettacolo della vita modesta e della natura morta” (per citare Proust).
Hit Man
Hit Man è quasi un pastiche di The Killer di David Fincher in quanto prende in giro gli stereotipi di quel profilo fantastico del sicario, dell’uomo-macchina perfettamente programato per uccidere. Ma mentre il personaggio di Michael Fassbender stava vivendo un fallimento, sperimentando un’insospettabile fallibilità, il protagonista di Linklater continua a essere sopraffatto dal suo stesso potere e dallo straordinario successo di ogni sua imitazione e travestimento. Nella misura in cui finge, diventa ciò che finge. L’insegnante di filosofia mette alla prova la porosità tra l’essere e l’apparire in un film che seduce per la sua elaborata combinazione tra precisione della sceneggiatura e disinvoltura nella conduzione della storia, e soprattutto per il modo in cui rivela tutto il potenziale dei suoi due attori, che sono già stati avvistati in alcuni ruoli minori, e che improvvisamente si impongono all’attenzione di chi guarda. Adrià Arjona, già scovata da Assayas, in un ruolo che sventa tutti gli stereotipi della femme fatale, e Glen Powell, che qui co-sceneggia e co-produce il film con Linklater e si rivela un attore brillante, al servizio di un autore in stato di grazia.
Il tempo che ci vuole
Francesca Comencini ha trovate infine il coraggio di realizzare il suo primo film, quello che aveva promesso al padre, Luigi, ricevendone in tutta riposta un lapidario: “Non lo vedrò”. L’ha fatto anni e anni dopo, mettendo in scena la vita che fu e il cinema che fu, e ancora: in breve, Pinocchio, l’eroina, Parigi. Un film sincero e bellissimo, che ci consegna una cineasta ormai matura, dopo la lunga e tediante “palestra” seriale di Gomorra e Django, e dopo essersi già rivelata imperfetta ma affascinante con Amori che non sanno stare al mondo. Una cineasta che nel bene e nel male continua a mettere il cuore davanti a ogni tentazione di intellettualismo e che qui trova un equilibrio quasi miracoloso tra il racconto intimo e cronachistico e la trasfigurazione fiabesca, tra la creazione artistica originale e il proprio vissuto d’autrice. Senza mai dimenticare il cinema. Inteso mai come sterile esperienza accademica, ma come mezzo indispensabile per conoscere se stessi e capire il mondo.
Blitz
La nuova opera di Steve McQueen è furiosamente spielberghiana, concepita come un lungo nastro automatico di incubi e orribili tormenti sul quale si trova un bambino di otto anni che sembra non tanto lottare per la sua sopravvivenza fisica quanto per attraversare un tunnel interiore senza fine di traumi alla fine del quale lo aspettano le braccia di una madre amorevole. Un viaggio in cui accade tutto ciò che un bambino non dovrebbe vedere: le grandi e piccole bugie del mondo degli adulti svelate, e l’innocenza evacuata dalle bombe della Luftwaffe così come dal disincanto di un trucco di magia, cuciti insieme come una serie di prove che trasformano il vagabondaggio del giovane George in un’odissea. Un bambino che ignora il proprio stigma (il colore della pelle) e vaga per un’Inghilterra raccontata un territorio per metà mentale e per metà letterario-dickensiano, in un film striato di sequenze oniriche e personaggi grotteschi e fantasmagorici: un carismatico organizzatore di rifugi sotterranei affetto da nanismo, una banda di patetici saccheggiatori con tendenze necrofile, che ricordano la banda di borseggiatori di Oliver Twist. Girare un grande melodramma di sopravvivenza in una città devastata dai bombardamenti dal punto di vista di un bambino: sarà difficile ignorare l’eco contemporanea di Blitz, ambientato non a Gaza nel 2024, ma nella Londra del 1940, ridotta dalle incursioni di Hitler a un cumulo di pietre e cenere.
ME - don hertzfeldt
Uno dei più stimati animatori sperimentali di America, Don Hertzfeldt, si è meritato l’amore incondizionato di tantissimi fan per la devastazione emotiva e l’umorismo impassibile che ogni suo lavoro porta con sé, sublimato nelle azioni quotidiane di piccoli sensibili stickman. Eppure questo nuovo ME è un punto di partenza formale audace anche per gli standard d’avanguardia stabiliti dal suo unico lungometraggio, It’s Such A Beautiful Day e dal cortometraggio candidato agli Oscar The World of Tomorrow. In soli venti minuti riesce comunque ad avere la portata di un’epopea, la sicurezza di un trattato personale senza compromessi. Don Hertzfeldt riesce così a trasformare una collaborazione musicale non più realizzata in un’animazione distopica che fonde composizioni interdimensionali con la poesia, il puzzle, avventure di rigenerazione e trasfigurazione in un sistema nervoso che fluttua liberamente. La sua assenza di parole squarcia un velo: questo è un film sulla rottura della comunicazione e sui suoi esiti – solipsismo, abbandono, degrado, fascismo – in un panorama contemporaneo di alta tecnologia e bassa moralità.
El affaire Miu Miu
La piccola città argentina di Trenque Lauquen invita una casa di moda italiana a presentare lì la sua ultima collezione. Dopo una cerimonia di benvenuto e un servizio fotografico, la modella scompare. Incaricati di cercarla sono alcuni poliziotti e consulenti locali, tra cui una chiaroveggente. Laura Citarella, regista e produttrice cinematografica argentina, tra le più grandi autrici di cinema contemporanee, riadatta in piccolo il suo capolavoro del 2022 per un corto commissionato dal progetto Miu Miu Women’s Tales, che invita le giovani registe a puntare l’obiettivo sulla vanità e la femminilità nel 21esimo secolo. Citarella confeziona un racconto hitchcockiano ironico e al femminile, in cui il gusto italiano per lo stile incontra quello argentina per il soprannaturale. Nell’universo filmico coesistono l’ossessione della regista per le donne che “anelano all’avventura più che a ogni altra cosa” e la metanarrativa di quelle donne che diventano i volti del marchio Miu Miu. Lungo il percorso, tra le pianure argentine, le investigatrici scovano pezzi dell’abito che la modella indossava. Nel frattempo gli spettatori, seguendo la protagonista nel suo pellegrinaggio attraverso la pampa, la vedono fondersi gradualmente con l’ambiente circostante, quasi fosse anch’esso un ulteriore vestito da indossare.
Do not expect too much from the end of the world
Il sottotitolo del nuovo film di Radu Jude, ovvero Do Not Expect Too Much From the End of the World, è “dialogo con un film dal 1981”. È quindi evidente che, come nel caso di The Marshal’s Two Executions (2018) e Tipografic majuscul (2020) ci troviamo ancora una volta davanti a quello che è innanzitutto un sofisticato esercizio di montaggio. Un film di finzione che racchiude in sé spezzoni di un film precedente, quello diretto appunto nel 1981 da Lucian Bratu e intitolato Angela Goes On, utilizzato da Jude come capsula del tempo utile a documentare la Bucarest degli anni Ottanta, quindi dell’era di Ceaușescu, che diventa la base visiva per una serie di evocative giustapposizioni della città di allora e di oggi. Jude richiama così in scena Angela Coman (Dorina Lazăr), la protagonista - oggi anziana - di Angela Goes On (o Angela Moves On, titolo dal significato ambivalente, che al movimento nello spazio ne associa anche uno emotivo), che nel film originale guidava moltissimo per le strade di Bucarest per guadagnarsi da vivere. Il montaggio alternato di Radu Jude invita il pubblico a confrontare la Bucarest mappata dall’immaginaria Angela di Bratu nel suo ruolo di tassista, mentre l’era di Ceaușescu stava appena entrando nel suo ultimo decennio, con la Bucarest attraversata dalla nuova protagonista del suo film, anche lei Angela e anche lei in auto, più di 40 anni dopo. Ci troviamo davanti a una città molto più trafficata, con un numero esponenzialmente più alto di auto a intasare le strade della capitale e a scaricare polveri inquinanti nell’aria, al punto che le immagini provenienti dal passato socialista ci appaiono preferibili e avvolte da un nostalgico romanticismo. Ma ovviamente è tutto un gioco di percezioni, un modo per svelare come il cinema - così ieri, così oggi - possa manipolare la realtà e dare una visione falsata della stessa.
Past Lives
Past Lives, primo film semi-autobiografico della drammaturga coreana, naturalizzata americana, Celine Song, è un capolavoro di minimalismo che emoziona senza dire troppo sui sentimenti dei suoi protagonisti: due amici di infanzia si perdono e si ritrovano e noi, da spettatori, seguiamo l’evolversi della loro relazione in tre archi temporali, in cui i due si sfiorano continuamente senza mai aver modo di esprimere pienamente quel sentimento che li ha tenuti insieme, nonostante la distanza e le separazioni, in tutti questi anni. Ispirandosi al fatalismo amoroso dello “in-yeon”, proprio della tradizione coreana, quello di Song è un film di grande potenza che dice molto dell’amore inespresso e incompiuto, che non nasconde l’influenza verso il cinema d’autore americano (ovviamente alle mente viene subito Richard Linklater) e indugia in una leggera malinconia, in una dolce disillusione sui propri sentimenti, molto moderna e contemporanea. Se i film romantici tendono a seguire uno schema molto rigido – il ragazzo incontra la ragazza, il ragazzo perde la ragazza, ricongiungimento finale – questo Past Lives immagina una forma trascendente di amore per Nora rispetto agli uomini della sua vita, che può essere intellettuale, platonica e romantica allo stesso tempo. Che li abbraccia tutti e li protegge come presenze ugualmente preziose. Il concetto, secondo la filosofia coreana, è che, per trovare davvero la propria anima gemella, si deve prendere sul serio ogni interazione, anche fugace o casuale, dal momento che ogni incontro è un passo fondamentale per arrivare a “quello che deve essere” (wonleh geuleonkeoya, 원래 그런거야): a quello “che è scritto”, maktub, in un senso religioso.
Racconto di due stagioni
“L’importante non sono gli eventi, ma le cose invisibili che accadono dentro di noi”, dice uno dei personaggi del nuovo film di Nuri Bilge Ceylan. E non è un caso che il cineasta turco vada stavolta all’essenza del suo stesso cinema, soffiando aria nella struttura ormai ampiamente rodata dei suoi film dai tempi de Il Regno d’Inverno, gonfiandola fino a farla implodere su stessa, così da rivelarne un suo nucleo fragile. Ceylan analizza quindi gli stati interiori dei suoi protagonisti con grande rigore, tratteggiando i contorni di una poetica molto più nebulosa di quanto inizialmente possa suggerire, e andando anche a discapito di una certa leggibilità della trama che, seppur estremamente concreta nel corso dei due terzi della storia, diventa sempre più opaca, naturalmente diretta verso numerosi punti ciechi che Ceylan decide di non illuminare mai. Dietro la sua omogeneità stilistica, il film rivela con forza la natura polimorfa dei suoi protagonisti (un intellettuale progressista ma disilluso, acceso da un bisogno di dominio, e una donna ferita e ancora guidata da un desiderio di utopia) e della sua forma.
Il gusto delle cose
Pochi film come l’ultimo di Tran Anh Hung, culmine del suo cinema sensoriale - olfattivo, tattile, gustoso - riuscirebbero a tenere insieme in maniera tanto sublime la classicità ostentata, persino vetusta, di una narrazione d’altri tempi con un’attenzione assolutamente contemporanea rispetto al piacere (foodporn, si direbbe) del cibo, alla sua consistenza, alla bellezza che regala alla vista, rendendolo allo stesso tempo metafora metacinematografica di uno sforzo titanico (il lavoro, l’ossessione per il dettaglio) destinata a dissolversi in qualcosa di transitorio (la visione di un film come la deglutizione di un boccone).
Origin
Quando Isabel Wilkerson (Aunjanue Ellis-Taylor, nella finzione cinematografica) concepì per la prima volta la premessa ambiziosa e sfaccettata alla base di quello che sarebbe poi diventato l’acclamato saggio “Caste: The Origin of Our Discontents”, i suoi editori si chiedevano se sarebbe effettivamente riuscita a collegare in modo coeso le sue dolorose esperienze private (la perdita, a pochi mesi di distanza, dell’amato marito e di sua madre) con la sua indagine tra secoli, culture e continenti per arrivare alle “origini del male”, ovvero alle radici di quell’odio che nei secoli ha soggiogato, segregato, annichilito, intere popolazioni. Questo è a sua volta lo stesso compito che la sceneggiatrice e regista Ava DuVernay deve adesso affrontare per divulgare le idee di quel libro ad un pubblico ancora più ampio, non limitandosi alla pedanteria didascalica del video-essay, ma rendendo cinematograficamente avvincente l’odissea rivelatrice di Wilkerson, il suo lungo viaggio - fisico e intellettuale - per trovare i giusti riferimenti da inserire nel libro e dare sostegno alle sue intuizioni.
Bestiari, erbari, lapidari
Nuovo film-saggio dalla coppia Massimo D’Anolfi-Martina Parenti, in cui la videocamera punta inesorabilmente su ciò che accade davanti ai nostri occhi (e alle nostre orecchie). Il racconto ha una struttura narrativa che combina pensiero razionale ed emotivo, mentre ci avventuriamo in quei mondi “sconosciuti” e per certi versi davvero alieni, fatti di animali, vegetali e minerali, che troppo spesso diamo per scontati, ma con cui dovremmo essere in costante dialogo in quanto esseri umani. Allo spettatore viene chiesto di arricchire il film con il proprio bagaglio di esperienze, interessi, letture o visioni cinematografiche, per compiere insieme ai due autori un viaggio sentimentale tra cultura, scienza e arte del nostro vecchio continente. Gli atti del film corrispondono a tre diversi dispositivi di messa in scena: un found-footage su come e perché il cinema ha ossessivamente rappresentato gli animali (bestiari), un documentario poetico d’osservazione dall’interno dell’Orto Botanico di Padova (erbari), e, infine, un film industriale sulla trasformazione della pietra in memoria collettiva (lapidari).
L’innocenza
Il nuovo film di Hirokazu Kore’eda (che generalmente scrive da sé le opere che dirige) è inevitabilmente segnato dalla collaborazione con lo sceneggiatore televisivo Sakamoto Yuji, che co-firma il copione. Non è una decisione di poco conto, quella di lavorare ad una sceneggiatura di cui non si è effettivamente autori unici e principali, ma il vero fulcro di questa ennesima sofisticatissima operazione tra realtà e cinema che Kore’eda compie nel tentativo di fornire allo spettatore gli strumenti utili per applicare in autonomia il principio morale che da sempre guida il suo cinema a qualunque personaggio e a qualunque narrazione (anche quelle, quindi, che non sono ideate da lui). In Monster ritroviamo tutti i temi cari al regista (l’infanzia, la decostruzione del nucleo famigliare tipico che si ricompone liberamente aldilà dei vincoli di sangue, l’abbandono, il crimine) azionati da un meccanismo narrativo che richiama quello di Rashomon, ma che è proprio anche della moderna serialità televisiva, in cui i medesimi fatti vengono raccontati più volte da punti di vista differenti. Un modello che impone un “eccesso” di scrittura rispetto ai precedenti film del regista, una maggiore aderenza alle regole della finzione e meno a quelle del quotidiano. C’è felicità di regia, senza fronzoli, diretta dalla dualità prospettica, e c’è come sempre la facilità di sentire, di aderire senza costrizione alcuna ai sentimenti dei personaggi che osserviamo, perché il triangolo tra madre, figlio e insegnante si apre verso la possibilità di un altro cambio di prospettiva, se non proprio di un’altra storia e di un altro film.
E la festa continua!
“Solo l’eterno (lo eterno), ciò che non ha mai cessato di essere, sarà un’altra volta rivelato (revelado), e la sorgente omerica scorrerà di nuovo (volverá)», scriveva il poeta spagnolo Antonio Machado nel 1919, dopo il massacro della Prima guerra mondiale. Ed è a quella tremante fonte che si abbevera Guédiguian per questo suo nuovo film - uno dei suoi migliori - la cui narrazione si svolge tutta sotto il busto di Omero in rue d’Aubagne, nel cuore di Marsiglia. A pochi passi da lì, il 5 novembre del 2018, alle 9 del mattino, crollarono al suolo due interi edifici: otto morti, molti feriti e migliaia di evacuati dalle altre abitazioni pericolanti nella zona popolare di Noailles. È quella la “carneficina” - restando nel paragone con Machado - da cui deve scorrere nuovamente la sorgente di una narrazione omerica, ovvero la narrazione dell’Occidente per eccellenza, che vuol dire cogliere la possibilità di raccontare in modo diverso, utilizzando le emozioni per suscitare nuove forme di intelligenza nel cinema, nella politica e nella società. Che poi è quello sostenuto, in altre forme, dalla giornalista, scrittrice e commentatrice politica turca Ece Temelkuran, nel suo saggio La fiducia e la dignità, in cui ribadiva la necessità di riappropriarsi di parole accoglienti come «dignità», «partecipazione», «attenzione», ma anche «forza», per contrastare le derive che negli ultimi anni si sono compiute all’ombra di un vocabolario del risentimento. Guédiguian non si sottrae: mette momentaneamente in soffitta l’impegno politico più pedante, nello stesso rifiuto bartlebyano della protagonista, e si riscopre leggero, fino a una folgorante scena in cui si arriva a citare Le Mépris di Godard, riutilizzando la musica originale di Georges Delerue. E si torna, quindi, a Omero.
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