Per capire bene cosa separa davvero Fury Road dal suo prequel, non si può non prendere in considerazione il film che nel frattempo, durante gli anni trascorsi tra gli ultimi due capitoli della saga di Mad Max, è stato realizzato da George Miller. Quel Three Thousand Years of Longing capace, in maniera affascinante, di rappresentare un commovente appello al potere curativo del mito e alla sua infinita capacità di seduzione. Come in quel caso, questo Furiosa, in netta contrapposizione con Fury Road, è un film condotto da una voce che proviene da lontano, narrato da una mente enciclopedica che custodisce un sapere ancestrale, in maniera non molto dissimile dal Djinn di Idris Elba. Si comincia da un Eden biblico completamente digitalizzato, in cui il frutto da cogliere è una mela (un frutto misteriosamente manipolabile dai poteri magici, scriveva Guido Ceronetti) che diventa viatico per la conoscenza, in grado di risvegliare in chi l’afferra la coscienza delle nozioni di Bene e Male. Oggetto dall’ambivalente facoltà: capace, nelle mani del profeta Malachia, di rianimare, oppure potenzialmente letale come in tante fiabe dei fratelli Grimm. In questo caso, Miller addenta il pomo di una computer grafica che si fa invadente, che reclama un proprio ruolo nello stile visivo complessivo di un film che, diversamente da Fury Road, non aderisce alla sabbia rossa su cui sfrecciano i veicoli, ma tende verso l’alto, verso quel “paradise lost” a cui si spera di poter finalmente tornare. L’ultima speranza in cui confidare per resistere al sopravvento di quella “religione ctonia” invece fondata sulla esaltazione dello “spirito” meccanico e sulla trinità che lo rappresenta: quella della Velocità, della Macchina e della Guerra. Di quel desiderio omerico, di quel nostos, rimane sempre una traccia visiva, una scoria digitale che illumina per fluorescenza una palette altrimenti terrigna, di un film condannato alla propria secolarità (come lo era il precedente, in cui ogni promessa di ritorno era già desertificata).
Anche per questa compresenza di meccanico e virtuale, Furiosa assomiglia in alcuni momenti a un videogioco open world (o, più precisamente, a un “sandbox”), di cui ripropone persino le dinamiche fondamentali: non solo la suddivisione della narrazione in missioni dagli obiettivi ben definiti (la conquista della cittadella, la distruzione di un punto di interesse), ma anche la fascinazione per il looting, il saccheggio delle risorse sul quale si fondano moltissimi dei principali titoli del panorama videoludico attuale (non deve sorprendere questo avvicinamento, considerando il coinvolgimento dello stesso Miller in operazioni come quella di Death Stranding). Mappando il territorio, il regista sviluppa una concezione del tempo e dello spazio - che qui sono la stessa cosa - estremamente essenziale e allusiva, tratteggiando con pochissimo una geografia complessa e scandendo la durata del viaggio nella genericità di tratte andata e ritorno. La monoliticità narrativa di Fury Road è qui sgretolata in una storia volubile, allungata, moltiplicata, a volte anche rapsodica, di cui è impossibile indicare una traiettoria univoca (che neanche gli inseguimenti, più vicini stavolta a delle sequenze di assedio su ruote, seguono più fedelmente). Non è la fuga il movimento principale, ma la vendetta, e così anche il film cambia modelli di riferimento, teorizza sul filone “vengeance” al punto da dimostrare la sostanziale inutilità di quel desiderio di rivalsa. Lo sforzo, semmai - e qui c’è una cosa che invece accomuna i due capitoli - deve essere tutto indirizzato alla propria liberazione dalle catene della religione e dei dogmatismi (altre forme di racconto, ma nocive e pericolose). Al raggiungimento di “una storia più alta” che riscatti finalmente una vita passata nella sudditanza e nella prigionia. Le ideologie vengono ulteriormente derise, ridotte a fumogeni colorati, così false e superficiali da poter essere lavate via con un po’ d’acqua.
Quella di Furiosa è, d’altronde, una finta origin-story. Il suo personaggio rimane ostinatamente unidimensionale, ancora più keatoniano (anche lei, non a caso, è un “General”) per come si muove in silenzio in questa apocalisse di camion e muscle car. A un anno da Mission Impossible: Dead Reckoning di McQuarrie, altra saga in cui l’attore principale è caratterizzato solo dalle sue azioni, come gli eroi del cinema muto, l’immagine del treno, consustanziale con il cinema stesso, come ci ha insegnato The Fabelmans, resta ancora un’ossessione per quei film d’azione che vogliono risalire alle origini del medium (decostruendolo, in questo senso anche letteralmente, dal momento che non ci sono realmente treni ma solo convogli di più veicoli allineati). L’origine, la fiamma vitale di questo cinema non la si trova però rifugiandosi nella nostalgia di un’era pre-digitale - come invece alcuni hanno pensato davanti a Fury Road - dal momento che quella scintilla la si tiene viva lavorando sui modi e i tempi - le velocità - del racconto, più che sulla sua estetica. Anche in questo, il cinema di George Miller non sembra avere altri riferimenti se non se stesso, trovando, contrariamente ad altre serie blockbuster, una propria coerenza senza omogeneizzare, appiattire, tipizzare.
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