Se c’è un regista che più di altri ha dedicato la sua vita al melodramma, cercando di restituire dignità artistica ad un genere che invece si è sempre alimentato del sentimentalismo più spicciolo e dei patetismi più lacrimevoli, quello è sicuramente Pedro Almodóvar. Nessuno è in grado di maneggiare con la stessa abilità del cineasta spagnolo materiale cinematografico “basso” (tradimenti, ripicche, urla e pianti) e di tradurlo in grande cinema. Tutte le sceneggiature scritte per i lavori di Almodóvar rischierebbero di diventare dei film terribili se messe nelle mani di un regista che non sia lui. Tutto questo è ancora più evidente in Dolor y Gloria, un’opera unica perché unico è il tono che il regista adotta (ma forse sarebbe meglio dire “inventa”) per lei.
Dolor y Gloria vive infatti di una morigerata sovversione, di un quieto anarchismo. È un film sotto antidolorifici, anestetizzato, ma che non rinuncia alla sua forza iconoclasta, quasi “punk”. Emblematico è il momento in cui Salvador Mallo, alter ego dello stesso Almodóvar, interpretato da un Antonio Banderas nella prova migliore della sua carriera, comincia a farsi di eroina e a disertare gli eventi pubblici a cui è stato invitato perché sotto effetto di droghe: un atteggiamento da “rockstar” esibito però con la pacatezza della vecchiaia. È incredibile come sia proprio questa “attenuazione cinematografica” la chiave di un film che in verità mette in scena una storia molto classica, quella di un artista in crisi creativa che improvvisamente si trova a dover fare i conti con il proprio passato.
Come sempre nel cinema di Almodóvar il corpo è una limitazione, un involucro fragile che frena la possibilità di essere davvero se stessi. Se nei suoi film degli anni ’90 era il sesso ad “ingabbiare” i personaggi, adesso è la vecchiaia e il decadimento fisico che questa comporta. Almodóvar mette in scena la dipendenza dalle droghe attraverso i rituali dell’assunzione (Salvador, per una mirabile intuizione di regia, deve ogni volta abbassarsi ed inginocchiarsi su di un cuscino per aprire la credenza nella quale nasconde l’eroina). Tutti gli avvenimenti si reggono come al solito su coincidenze incredibili, su persone che ritornano dal passato dei personaggi nei momenti più implausibili, sui ricordi di un grembo materno a cui si è stati sottratti: prima quello di Penélope Cruz (ancora una volta Anna Magnani per Almodóvar, dopo Volver, in cui l’attrice romana compariva attraverso le immagini di Bellissima di Luchino Visconti) e poi quello di Julieta Serrano (in un ruolo che, se fosse ancora tra noi, probabilmente sarebbe stato affidato a Chus Lampreave).
Anche in Dolor y Gloria i personaggi femminili veicolano una maniera di vivere che è completamente diversa da quella che incarnano gli altri comprimari. I loro interrogativi, compresi quelli più superficiali, hanno sempre un peso che altrove non avrebbero (come già nello scorso film, persino la decisione di ridipingere o meno le pareti di casa avrà delle conseguenze inaspettate e cruciali).
Per Almodóvar ogni passaggio narrativo davvero significativo è accompagnato da un intervento sul fisico dei propri personaggi. Intervento che può essere una operazione chirurgica, come in questo caso, ma anche un banalissimo shampoo, attraverso cui passa l’elaborazione di un lutto (come in Julieta). Modificazioni che coinvolgono il corpo umano tanto quanto il corpo del cinema (la trama prende il via perché qualcuno ha deciso di restaurare la pellicola di un vecchio film del protagonista, quindi di modificare meccanicanicamente il mezzo filmico). Dolor y Gloria procede con un andamento scostante come la camminata del suo protagonista. C’è una “calcificazione cinematografica” che deve essere asportata e la macchina da presa, strumento chirurgico per eccellenza in grado di operare sulle immagini, la rimuove progressivamente, attraversando la messa in scena inizialmente rigida e concedendo allo sguardo dello spettatore nuove possibilità di penetrazione. D’altronde “guardarsi”, nel cinema di Almodóvar, è da sempre l’unico modo per affrontare la vita, per comprendere le persone che amiamo, per comunicare con loro. Non a caso, quindi, il personaggio che cambia la direzione della narrazione in Dolor y Gloria non è uno di quelli che agiscono attivamente nel film, ma uno spettatore.
A differenza del suo Salvador Mallo, che tenta goffamente di non “rivelarsi” attraverso le sue opere, nonostante queste contengano inevitabilmente il vissuto di chi le crea, Pedro Almodóvar sa bene che non serve a nulla “camuffare” la propria presenza. Per questo motivo, anche quando Dolor y Gloria svela allo spettatore la propria matrice metacinematografica, riesce a non risultare fasullo. Chi guarda è già consapevole di star assistendo ad un “film dentro al film” prima che questo venga dichiarato senza fraintendimenti. Perché quello di Almodóvar è sempre un “cinema dentro al cinema”.
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