Call me by your name di Luca Guadagnino prosegue il discorso sul desiderio che già faceva da sfondo in A Bigger Splash (e prima ancora in Io sono l’amore). Ma lì dove una delle ispirazioni era l’omonimo quadro di David Hockney, che eliminava la presenza umana dalla rappresentazione di un tuffo nell’acqua, adesso è sulla presenza (e la visione) dei corpi che Guadagnino muove la sua storia. Anche in Call me by your name i personaggi si immergono in decadenti piscine ma il loro corpo non scompare mai ed è sempre visibile in trasparenza. Perché i protagonisti di questa storia immersa in uno sfacciato elitismo borghese, in cui le persone passano le proprie giornate sfogliando tomi di filosofia o trascrivendo spartiti di musica classica, sono in realtà mossi da slanci non cerebrali ma di ansia erotica e desiderio di vicinanza fisica.
Così Call me by your name diventa ben presto un lavoro “epidermico” e “sensoriale”, dove ogni azione, che sia un breve massaggio o una pacca sulla spalla, diviene funzionale all’avvicinarsi dei corpi ed allo sfregarsi della pelle, che sempre meno può restare nascosta nelle camicie e nei pantaloncini estivi, al punto che i protagonisti sembrano procurarsi persino delle abrasioni solo per il piacere di mostrarle. Ma il modo di Guadagnino di concepire i corpi sembra coincidere con quella “haptic visuality” di cui parlava Laura U. Marks in un famoso saggio di inizio millennio, ovvero un cinema la cui esperienza non si ferma alla sola sfera del visivo ma arriva ad essere qualcosa di palpabile. Eppure diversamente dai registi francesi contemporanei, da Ozon a Morel, famosi per i loro “close-ups” di nudi, il cineasta siciliano non esplora il corpo maschile avvicinando ad esso la macchina da presa, mostrandolo quando già spoglio dei vestiti che lo coprivano, ma lasciando che esso si disveli da sé agli occhi di chi guarda.
Gudagnino si emancipa dai propri maestri e li omaggia in maniera coerente con la narrazione: non solo il Rossellini di Viaggio in Italia (che già era uno dei riferimenti maggiori di A Bigger Splash, specialmente nella costruzione estetica del personaggio di Tilda Swinton, così vicino a quello della Bergman) ma anche Jonathan Demme. Non è un caso che i due snodi fondamentali della trama, ovvero l’iniziale infatuazione ed il successivo sgretolamento delle fantasie amorose di Elio, siano accompagnati da scene di ballo paragonabili a quelle di Something Wild o Swing Shift.
Il regista siciliano inserisce nella sua storia l’ambientazione come se fosse questa a determinare le emozioni di chi la vive, inquadrandola come un posto fuori dal mondo da cui non si vede nulla se non alberi e radure, come in un certo cinema di Bertolucci. E se in A Bigger Splash la villa sembrava cambiare nei colori e nelle luci man mano che i turbamenti del passato venivano a galla, così la dimora dei Perlman sembra inizialmente un luogo in cui non c’è possibilità di evadere da sguardi indiscreti (persino il bagno è adiacente ad un balcone) ma che progressivamente svela i suoi spazi di intimità e complicità. Lascia esterrefatti la maniera con cui Guadagnino suggerisce indizi sui propri protagonisti anche solo mostrando un minuscolo elemento di arredo: dalle stampe giapponesi appese al muro del salone principale, da cui si evince il multiculturalismo borghese della famiglia, al divano sbiadito nello studio di mister Perlman, prova tangibile di quanto quella casa sia stata vissuta e respirata. Per questo la bellezza quasi doviziosa che satura ogni fotogramma non sembra opulenza come quella dei precedenti lavori del regista, ma una avvenenza carica di sensualità che accompagna le forme sinuose della storia.
“If you only knew how little I really know about the things that matter”
― Elio (Timothée Chalamet)
È invece nella gestione dei tempi della narrazione che emerge l’esperienza di Guadagnino nel noir. Perché come la tensione si alimenta necessariamente aggiungendo a poco a poco elementi di ambiguità, così la passione ed il desiderio non esplodono immediatamente ma sono emozioni liquide che goccia dopo goccia colmano quei piccoli anfratti delle nostre esistenze che lasciamo deliberatamente vuoti nella speranza che qualcuno li riempia. Come nel quadro di Hockney nominato in apertura non é possibile conoscere né cosa viene prima né cosa viene dopo ciò che è stato rappresentato, così in Call me by your name non c’è passato (pochissimo sappiamo del legame tra la famiglia Perlman ed Oliver) e non c’è futuro (come avviene sempre nelle fugaci passioni estive): la sola cosa che conta è il presente, il tuorlo di un uovo che tracima dal suo guscio o un minuscolo movimento della mano che esiste solo nell’istante in cui sfiora la pelle.
Al cinema dal 25 gennaio 2018.
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