Andrey Zvyagintsev, russo, classe 1964, è uno dei più acclamati registi contemporanei. Vincitore nel 2003 del Leone d’Oro a Venezia con il suo film d’esordio Il Ritorno (presidente di giuria era Mario Monicelli, mai perdonato in patria per aver “snobbato” il connazionale Marco Bellocchio con il suo Buongiorno, notte) e autore di grandi successi come Leviathan (2014) e Loveless (2017), entrambi candidati agli Oscar e amatissimi fuori dal loro Paese di provenienza. Nel 2021, dopo aver contratto il Covid e dopo essersi aggravato in ospedale a causa di una conseguente setticemia, Zvyagintsev è stato ricoverato in Germania, dove è rimasto in coma per oltre un mese. Risvegliatosi, non era più capace di camminare. Passati altri mesi in una clinica specializzata per la riabilitazione e finalmente pronto a tornare a casa dopo l’incubo vissuto, Zvyagintsev si rende però conto che il mondo attorno a lui è completamente cambiato: Putin ha deciso di invadere l’Ucraina.

In questi giorni è a Parigi come membro della giuria internazionale del MyFrenchFilmFestival, festival online interamente dedicato al cinema francofono promosso da Unifrance. Abbiamo avuto modo di intervistarlo e di chiedergli aggiornamenti sul suo futuro da regista.

Inizierei chiedendoti di raccontarci come sei arrivato a Parigi, dove adesso vivi e lavori...

Come sai, è una lunga storia. Sintetizzandola, ti direi: stavo per morire e invece mi sono risvegliato a Parigi. A causa di un’infezione sono stato quaranta giorni in coma e sono stato ricoverato d’urgenza in Germania. Quando sono tornato cosciente, ho scoperto che il mio Paese aveva invaso un Paese vicino e che aveva fatto scoppiare una guerra. Allora mi sono domandato se valesse la pena tornare in Russia e in qualche modo accettare così la decisione di questa guerra. Oppure se rimanere in Europa, restare fuori da questi eventi e magari cercare di ricominciare da capo. Sono ormai in Europa da tre anni e mezzo, attualmente vivo in quella che ho sempre considerato un po’ la patria del cinema. I miei figli e mia moglie, a differenza mia, parlavano già francese, quindi è sembrata la scelta naturale venire a vivere qui. 

In qualche modo il tuo cinema è sempre stato in dialogo con quello europeo e hai spesso citato L’Avventura di Antonioni come il film che ti ha fatto innamorare di questa forma d’arte. Immagino che nella tua formazione da cinefilo abbia contato molto anche il cinema francese...

Beh, se dovessi indicare un nome di un regista francese che mi ha davvero ispirato tantissimo, che mi è stato idealmente accanto quando ho cominciato a fare cinema, direi sicuramente: Robert Bresson. Dopodiché ho amato molto anche il cinema di Éric Rohmer, anche se può sembrare distante dal mio, quello dei fratelli Dardenne (che hanno co-prodotto il suo Loveless con la società Les Films du Fleuve, ndr). Da quando sono a Parigi ho fatto amicizia anche con Gaspar Noé, che è un autore che ammiro molto per la sua capacità di restare fedele a se stesso, alla sua personalità, al suo stile. Sono perciò felice di avere la possibilità oggi, grazie al MyFrenchFilmFestival, di vedere alcuni dei film più recenti prodotti dal cinema francese e capire quindi quali sono i problemi e le tematiche che più stanno a cuore ai registi di oggi, con tutto quello che sta succedendo nel mondo. 

Parliamo del presente, quindi. Prima della pandemia eri nel bel mezzo della produzione del tuo primo film in lingua inglese, che si sarebbe dovuto intitolare What Happens. Ecco, che cosa è successo?

Non siamo mai riusciti davvero ad arrivare alla fase delle riprese di quel film. La storia esplorava la relazione tra due personaggi principali, che dovevano essere interpretati da due star americane molto famose. Avevamo la sceneggiatura pronta, ma la produzione non è mai andata avanti e adesso è nelle mani del mio agente, che sta cercando di trovare un modo per far ripartire il progetto. Questo è tutto quello che posso dire, anche perché sono molto vecchia scuola da questo punto di vista e mi piace creare del mistero attorno alle cose a cui sto lavorando. So che in Europa e in America le cose funzionano diversamente, perché in qualche modo devi “vendere” il film prima ancora di farlo e creare attenzione ancora prima di cominciare a girarlo (ride, ndr). 

Ecco, allora parlando più in generale... credi, dopo tutto quello che è successo nella tua vita, di essere in una nuova fase del tuo cinema?

È sicuramente così. Senza svelare troppo anche in questo caso, posso dirti che adesso sono nella fase di pre-produzione di un nuovo film, che è una cosa completamente differente rispetto al progetto di cui parlavamo prima e anche rispetto al film che credevo di poter girare lo scorso anno (Jupiter, ndr). È un film che parla della Russia, della sua società, in lingua russa, ma lo gireremo in Europa, spero tra settembre e novembre di quest’anno. Sta al produttore annunciare qualcosa di più dettagliato e credo che lo farà già a Berlino, per l’European Film Market, oppure al Marché du Film di Cannes. E credo che, come dici tu, rappresenterà una nuova fase nel mio cinema, qualcosa di diverso rispetto a quanto fatto in precedenza. 

Tornerai a lavorare con il tuo fidato produttore Aleksandr Rodnjanskij? E, a tal proposito, ti chiedo cosa ne pensi della condanna a otto anni e mezzo di carcere emessa dai tribunali russi dopo le sue dichiarazioni sull’invasione russa dell’Ucraina...

Continuiamo a essere amici, come è sempre stato. Per il mio nuovo film, però, la produzione sarà principalmente francese e non credo ci sarà la necessità di trovare altri produttori associati al progetto. Ma credo che in futuro potremo tornare a collaborare come abbiamo fatto in passato, non c’è nessuna ragione per escluderlo a priori. E perdonami se ho sorriso quando hai menzionato la sua condanna, ma se vivessi in Russia in questo momento non saresti minimamente sorpreso da una cosa del genere. Non esiste più nessuna logica, specialmente nelle aule dei tribunali. Basta andare in giro con un foglio di carta con la scritta “No alla guerra” per essere arrestati. Nel caso di Rodnjanskij, lui ha espresso pubblicamente, e in maniera molto dura, la sua opposizione rispetto alle decisioni del governo. Non poteva finire in altro modo. Semplicemente in Russia una cosa del genere non la si può fare. La repressione del dissenso è come una palla di neve che rotola giù, tende sempre a crescere, ad aumentare nel volume. 

I tuoi film sono stati proiettati sempre sia in Russia che in Europa e America. Credi che ci sia una differenza nel modo in cui questi diversi pubblici si approcciano al cinema e a ciò che vedono?

In Russia abbiamo un modo di dire abbastanza brutale: “Non dare la colpa allo specchio per la tua brutta faccia”. Eppure è quello che succede quando il pubblico di un Paese si trova davanti a un film che parla di loro, che li mostra per quello che sono. E non credo che sia una cosa che accade solo in Russia, anche se forse in America e in Europa si ha una maggiore capacità nel distanziarsi rispetto a ciò che si sta vedendo. Quando è uscito Leviathan in Russia, il pubblico si è diviso tra chi sosteneva che quella rappresentata fosse la realtà del Paese in quel momento, con tutte le conseguenze del caso, e chi invece la riteneva una finzione che non aveva nulla a che vedere con il Paese reale. 

Tornerai in Russia?

Non lo so. In questo momento sicuramente non potrei realizzare nessun film lì. Ed è quello che invece conta per me. È la mia vita.