Stavolta Jafar Panahi abbandona la forma metacinematografica che ha contraddistinto il suo cinema negli ultimi anni per mettere in scena un thriller paranoide, che affronta il potere del regime iraniano in una sua versione quasi metafisica, piuttosto che reale, simile a quella descritta da Hannah Arendt in Vita Activa: raccontando non tanto i “segni del potere”, ma il suo aspetto potenziale, mutevole e provvisorio. Un potere latente e non un’entità immutabile, misurabile e indubbia come la forza o la potenza materiale, quindi, che Panahi descrive come una dittatura tutta mentale, che nella realtà empirica si manifesta più che altro nei suoi aspetti più piccoli e mediocri, di corruzione spicciola e quotidiane ingiustizie. Una paranoia che, in ultima istanza, rischia di trasformare le vittime di ieri negli aguzzini di domani. Se l’immaginario paranoide del potere è legato a tre concetti fondativi - sospetto, solitudine e paura - allora Panahi diagnostica il profilo patologico e indica un potenziale rimedio nella costruzione di una piccola e provvisoria comunità di uomini e donne: un’organizzazione sociale precaria ma capace di vincere quella diffidenza che conduce necessariamente al distacco, rilevabile dall’incapacità del paranoico di adattarsi nel contesto sociale, di vincere la collettività e instaurare relazioni sociali con gli altri. 

La definizione stessa della paranoia, dalla forma comparativa greca di parà e noùs (fuori dalla mente), indica già uno stato d’alterazione che innesca una reazione a catena a livello quasi molecolare per cui diventa impossibile riconoscere la realtà per quella che è. Ed è anche per questo che A Simple Accident rivela una dittatura “amputata”, claudicante, che già risente delle proteste di piazza scoppiate dopo l’uccisione di Mahsa Amini nel settembre 2022. È un Iran già cinematograficamente molto diverso rispetto ad altri film recenti quello ripreso da Panahi, in cui le donne camminano per strada indossando l’hijab in una maniera che sarebbe stata definita «impropria» dalle leggi del loro Paese fino a qualche anno fa, ma che adesso testimonia un cambiamento già in atto, che Panahi, con slancio documentaristico, ritiene essenziale attestare. Insomma, la società iraniana sta cambiando e raccontarla al cinema con gli stessi codici di prima vorrebbe dire sminuire il valore di questo cambiamento, che invece Panahi sente il bisogno di “accompagnare”. Se il potere, infatti, è sempre sopravvivenza a sé stesso, anti-mutamento, il cinema può invece trasformarsi continuamente (laddove la metamorfosi rappresenta l’anti-potere) riconoscendo che ogni forma di dittatura e di oppressione si basa innanzitutto su di una sua forzata estromissione dal reale. Quel reale che le immagini possono fissare una volta per tutte, testimoniare in maniera tale che non possa più essere negato, in un indispensabile - finanche etico - bilanciamento tra esigenze di narrazione e affermazione dello stato delle cose. 

I protagonisti del film si muovono per le strade di Teheran con un furgoncino, dentro il quale nascondere un loro vecchio torturatore, sul quale adesso vogliono vendicarsi. C’è un corpo in ostaggio, quindi, al centro del film, che è forse il corpo stesso del cinema di Panahi, che rinchiuso in quel furgoncino ha dovuto dirigere gli attori e organizzare le scene da remoto, senza uscire di strada, con la paura di poter essere riconosciuto e, malauguratamente, nuovamente arrestato. In questa privazione di libertà c’è ovviamente l’insulto più feroce che si può rivolgere alla dignità umana. Un oltraggio che non trova giustificazione nemmeno se i “carnefici”, stavolta, sono quelli storicamente oppressi, in cerca di rivincita su chi ha rovinato loro la vita. Se si arriva a quel punto, vuol dire che il potere sta vincendo, che è riuscito a contaminare anche chi ha lungamente perseguitato. La paranoia si alimenta da sola, secondo quel processo che Luigi Zoja definiva “autotropia”, e si finisce per non rispondere più a un abuso in maniera proporzionale, bensì sempre eccessiva, progettando in maniera ossessiva e minuziosa i dettagli della propria strategia contro i nemici (veri ma soprattutto presunti) e i tratti del contrattacco. Panahi trova nel mezzo cinematografico un medicamento a questi mali: innanzitutto un’arte collettiva e un modo per stare insieme (contro la solitudine), ma anche un luogo fisico, calato nella realtà (contro la diffidenza), e uno strumento per denunciare e sentirsi forti (contro la paura).