In un avvenire fumoso, che John Krasinski (alla sua 3a regia) sembra non voler in alcun modo approfondire o precisare, c’è una famiglia che vive in una vecchia azienda agricola ai confini della campagna americana, i cui membri non possono parlare per paura di svegliare le decine di feroci esseri che popolano la zona, ciechi ma in grado di rispondere ai rumori che per frequenza spiccano su quelli del bosco nel quale dimorano. Eppure i personaggi di A Quiet Place sembrano non riuscire a comunicare neanche quando possono (nei pressi di un fiume che scorre veloce e rumoroso, ad esempio) a causa di rimorsi e rancori che albergano nel loro cuore e che in qualche modo li frenano nella espressione delle proprie emozioni. Come in Loveless di Zvjagincev commuovevano le lacrime sorde di un bambino che non voleva farsi udire da sua madre e suo padre, così il film di Krasinksi indugia su urla che si soffocano in gola e su disperazioni silenziose.
Il suono, nella sua negazione e nella sua amplificazione, sembra essere la nuova ossessione del cinema horror moderno: se la donna sorda in Hush di Flanagan non era capace di percepire i rumori del suo aggressore, i ragazzi di Man in the Dark di Álvarez non dovevano provocare il minimo sibilo per non allarmare il vecchio (cieco, in quel caso) che volevano derubare. La soluzione di ridurre al minimo i dialoghi fra personaggi, narrando la propria vicenda usando solo il rumore dei passi ed i fragori improvvisi, è una idea di regia coraggiosa in un lavoro commerciale, quindi da indirizzare ad un pubblico digiuno di un cinema più di “avanguardia”. Eppure sarebbe un errore giudicare il film di Krasinski come qualcosa di più di un (bel) b-movie, modello di cui segue le regole ed i codici, sacrificando nel nome del suo “gimmick” le ambizioni di creare qualcosa che vada al di là della semplice esperienza fugace.
Krasinski riesce a creare un clima di ansia ed apprensione non solo con il sound design (che per ovvie ragioni occupa un ruolo primario) ma anche grazie alle immagini e all’uso da manuale dei cliché del genere, quelli che spesso si decide di ignorare perché “banali” e che invece sono ancora indispensabili se ne si comprende l’efficacia. Non saranno quindi (solo) i rumori ad accrescere la preoccupazione di chi guarda, ma ad esempio l’immagine di un chiodo che fuoriesce da un gradino e che espone i personaggi ad un grosso rischio (la vecchia regola per cui si crea la suspense svelando al pubblico qualcosa che i personaggi ancora non vedono). Come in un classico b-movie, ogni cosa che accade non è funzionale ad una idea di verosimiglianza o congruenza ma serve a muovere il meccanismo alla base della narrazione.
Ma il film di Krasinski, non avendo grosse aspirazioni, sembra avvicinarsi più ad un episodio di una serie TV (non solo nel finale con cliffhanger) per come cerca la reazione improvvisa senza preoccuparsi di conferire il benché minimo fascino ad un mondo di cui non si sa nulla e la cui mancanza di descrizione non induce mai a volerne sapere di più. In alcune sequenze sembra di vedere la versione espansa di un episodio di Black Mirror, come ad esempio il Metalhead di David Slade, che in egual misura era in grado di appassionare grazie al modo con il quale riusciva a generare angoscia per mezzo delle immagini e del loro chirurgico assemblaggio, pur non avendo nulla di serio o profondo da dire.
Così il film si inserisce in quel filone di pellicole nelle quali il dinamismo delle scene prevale sullo sviluppo dei personaggi e persino sulla coerenza della vicenda. Quelle che anni fa uscivano al cinema, quando non in home-video, con il bollino quasi disdegnoso di “b-movies” e che oggi vorrebbero essere il vero anello di congiunzione fra cinema art-house e grande pubblico. Ed è curioso che un lavoro che per logica comune sarebbe fra quelli più idonei ad inserirsi nelle librerie online dei colossi dell’on-demand, sia invece un’opera di cui si può fruire nel migliore dei modi solo nella sala di un cinema. Non avendo una solida esperienza nel genere horror (a differenza di Slade, Flanagan, Álvarez) sorprende comunque la bravura di Krasinski nel riuscire a fare paura usando come linguaggio primario quello della composizione delle scene e della precisa collocazione dei personaggi nel campo di azione (rendendo ancora più chiaro il ruolo solo accessorio del silenzio nel suo film).
A margine, non è forse secondaria la somiglianza così clamorosa fra gli esseri che popolano le lande di A Quiet Place e gli ormai celebri clickers del videogioco The Last of Us, ad evidenziare una reciproca influenza dei due media sempre meno eccezionale.
Comments