La vera grandezza di Paul Thomas Anderson risiede nella bravura con cui riesce a rimanere riconoscibile ed inconfondibile anche in quelle opere che meno aderiscono ai canoni ai quali spesso il pubblico riconduce il suo cinema. Famoso per i suoi lavori corali e caleidoscopici, di classica ispirazione Altmaniana, in cui episodi diversi e numerose narrazioni si incrociano in un groviglio spesso irrisolvibile, Anderson con Il Filo Nascosto dirige un dramma da camera privo di ogni orpello, ancora più semplice e lineare del suo già essenziale The Master. Proprio la relazione tra Phoenix ed Hoffman nella sua opera del 2012 ricorda da vicino quella che adesso Anderson descrive tra lo stilista Woodcock e la sua musa Alma, ovvero relazioni che non si reggono solo sulla fiducia cieca ma anche sul dominio psicologico (e persino fisico) degli uni sugli altri, che dallo squilibrio tendono sempre ad una armonia che non è quasi mai sana o condivisibile. Come in ogni sua opera, il dolore dei personaggi deriva dalla loro tenacia nel voler essere sempre ciò che si impongono e dalla frustrazione nel dover cambiare le persone che amano da ciò che sono a ciò che loro vorrebbero che esse siano.

Il cinema di Anderson è quasi sempre qualcosa di diverso dalla realtà che viviamo e di inconciliabile con essa: i personaggi non sono quasi mai esseri umani verosimili ma ideali che si fanno uomo (e donna). Però se i loro dialoghi, le loro mosse e le loro reazioni sarebbero impensabili fuori dallo schermo, nel suo cinema così unico e personale assumono una coerenza che li rende irreali ma mai in-credibili. Anche Reynolds ed Alma non sono due persone comuni, parlano spesso per frasi iperboliche e hanno modi di porsi che non sono quelli che conosciamo, eppure sono davvero umani e non umane incarnazioni di ideologie come Daniel Plainview (capitalismo) o Larry Sportello (il sogno del ’68) prima di loro. Paul Thomas Anderson li mostra quasi sempre in secondo piano, collocando la macchina da presa nei luoghi più inusuali, ad esempio tra le sedie di un tavolo o dietro gli arredi del decòr, inquadrando persino nei controcampi (che qui sono numerosi, a differenza che in There will be blood, dove invece li negava) il volto di spalle di chi ascolta a coprire parzialmente il suo interlocutore. Così se gli abiti di Woodcock celano le imperfezioni dei corpi di chi li indossa, anche la regia del cineasta americano decide di non mostrare sempre i propri protagonisti ma di nasconderli spesso dietro qualcuno o qualcosa. La regia di Paul Thomas Anderson accompagna la ricerca ossessiva di precisione e di ordine di Woodcock con eleganza ed eccellenza, così da sembrare il solo vero argine agli impulsi di caos e scompiglio di Alma, che si smorzano in una gabbia di rigida perfezione.

La colonna sonora di Johnny Greenwood spesso invade le scene con forza e sembra seguire le oscillazioni dei personaggi, ma la musica si inserisce nella narrazione in maniera più classica e senza quel ruolo decisivo che aveva ad esempio in Magnolia, nel quale assumeva, a seconda delle esigenze, valenza diegetica, extra-diegetica o iper-diegetica (sino a far convergere le sue diverse funzioni nel finale). Eppure come sempre le composizioni di Greenwood spogliano i “period dramas” di Anderson della magniloquenza propria del genere e li rendono più moderni di quello che sono. Grazie ad un lavoro formidabile sul sound design e sulla fotografia, ogni cosa messa in scena sembra avere una reale consistenza che fuoriesce dallo schermo sino ad essere tangibile da chi guarda. Non solo i tessuti dei vestiti, che pare quasi di poter accarezzare con i polpastrelli per afferrarne i materiali, ma anche gli asparagi che si spezzano tra i denti ed il burro che si spalma sul pane. Ma se la sublimazione del desiderio nel cinema di Anderson passava dalla esplorazione epidermica (la pelle nuda della Waterston che accarezza quella del divano in Vizio di Forma, la lussuria dei corpi in Boogie Nights), adesso i piaceri della carne quasi scompaiono e i personaggi sembrano cercare le medesime sensazioni in esperienze diverse da quelle sessuali.

“I cannot start my day with a confrontation. I simply have no time for confrontation”

― Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis)

Tra Jane Eyre e Rebecca di Daphne du Maurier, il nuovo film di Anderson vive anche grazie alla maniera unica con il quale il suo classico humour si inserisce nella composizione di un cinema solo nelle apparenze severo e solenne. La pellicola in 35mm che rende le immagini così speciali non ha una funzione dissimile da quella dei panni che Woodcock usa per cucire le sue creazioni, in grado di dare seno lì dove non c’è e di sfinare dove invece le forme eccedono.

Ma anche Reynolds Woodcock alla fine svelerà al pubblico la sua vera angoscia, che non è poi diversa da quella che accomuna ogni personaggio della filmografia di Paul Thomas Anderson, ovvero quella di essere alieni in un tempo che non si percepisce più come proprio. Come il Jack Horner di Boogie Nights non riusciva a comprendere una pornografia che cambiava mezzi e maniere, come il Doc di Vizio di Forma voleva essere un hippie quando non era più in voga esserlo, come il guru di The Master credeva di vivere in un Paese che si era mosso senza di lui, così il signor Woodcock scopre l’arrivo di una nuova idea di moda in grado di rendere la sua vecchia e non più “chic”. E se è vero che “si può cucire quasi ogni cosa nella stoffa di un soprabito”, nelle fodere del cinema di Paul Thomas Anderson si possono nascondere temi e messaggi così in profondità da renderli invisibili ma sempre percepibili.